giovedì 26 giugno 2008

Centro di cinematografia. Entra un monsignore

l’Unità 26.6.08
Bondi conferma Alberoni
Centro di cinematografia. Entra un monsignore

Il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi ha inviato alle Camere la richiesta di parere per confermare il sociologo Francesco Alberoni a presidente del Centro sperimentale di cinematografia. Ha anche chiesto il parere per il rinnovo del consiglio di amministrazione dell’istituto di alta formazione cinematografica: qui ha designato monsignor Dario Viganò (una sorpresa, qui, anche se alti prelati in passato si potevano ritrovare nelle commissioni di censura), il regista Pupi Avati e l’attore Giancarlo Giannini.
La promozione della cultura «non può accompagnarsi a un regime di spesa senza limiti e senza controlli», dichiara Bondi alla commissione cultura del Senato a proposito dell’esigenza di assicurare il rispetto di criteri di efficienza nella spesa degli enti e delle fondazioni che beneficiano del Fus, il fondo unico dello spettacolo. Il ministro ha ricordato che molte Fondazioni liriche hanno accumulato debiti considerevoli. «È necessario intervenire subito con linee di indirizzo che interrompano questa situazione che rischia di diventare ingovernabile. La forma delle Fondazioni - ha proseguito -, presuppone una assunzione di responsabilità che riguarda anche gli enti locali e le Regioni. Il federalismo è una cosa giusta e sacrosanta, ma deve valere anche nella forma della collaborazione nella ricerca dei finanziamenti, nel reperimento delle risorse e nel controllo della spesa».

Chiese, sinagoghe e moschee così scelgono tra Obama e McCain

l’Unità 26.6.08
Chiese, sinagoghe e moschee così scelgono tra Obama e McCain

IN GOD WE TRUST Gli Stati Uniti sono una nazione profondamente religiosa, sta scritto persino sulle loro banconote. Dall’ultima inchiesta nazionale sul rapporto tra fede e vita pubblica, risulta che il 92% degli americani crede in Dio. La vera novità è che aumenta la tolleranza tra fedi diverse, mentre perde terreno ogni confessione rigidamente organizzata. In tutte le ultime presidenziali, l’affluenza in chiesa è stata il miglior indicatore dell’orientamento di voto. La schiacciante maggioranza di chi osserva i precetti ha regolarmente votato il candidato repubblicano. Ora in vista delle elezioni di novembre, il voto si presenta molto più fluido rispetto agli schieramenti tradizionali. I democratici guadagnano consenso tra la maggioranza protestante, soprattutto tra i giovani evangelici. E la campagna di Barack Obama ha dedicato uno straordinario impegno per stringere contatti con le varie organizzazioni religiose. Il terreno presenta tuttavia molte insidie: l’ultima è una polemica sull’interpretazione delle scritture in un comizio di Obama: «Nel Levitico la schiavitù sembra ok. Mangiare crostacei è un abominio».
Il rapporto del Pew Research Center’s Forum on Religion & Public Life, basato su un campione di 35mila adulti rappresentativi della popolazione Usa, indica che per la prima volta i consensi del Partito repubblicano tra gli evangelici scendono sotto il 60 per cento. «I nuovi evangelici, una sfida per la destra religiosa», titola il settimanale New Yorker. Si tratta di giovani pragmatici che mettono al primo posto solidarietà sociale e tutela dell’ambiente. Che si riconoscono maggiormente con la figura di Obama piuttosto che con quella di John McCain. Non solo per un fattore generazionale. E c’è la variabile di un impressionante 44 per cento di americani che ha cambiato almeno una volta la propria denominazione religiosa o ha deciso di gestire privatamente la propria spiritualità. Questo è un segmento dove gli indipendenti sono in crescita. La roccaforte repubblicana inespugnabile sono i mormoni, dove il consenso è stabile al 65 per cento.
I cattolici sono considerati un campo di battaglia e rappresentano quasi per il 25 per cento della popolazione Usa. Il 48 per cento è orientato verso i democratici, il 33 per cento verso i repubblicani. L’entusiasmo per gli anni di John F. Kennedy, primo e unico presidente cattolico degli Stati Uniti, si è stemperato negli anni di Reagan con un progressivo spostamento a destra. Gli storici ricordano inoltre che Kennedy non mise mai in primo piano la propria fede. E per meglio spiegare come ha gestito il rapporto tra religione e politica, hanno coniato l’espressione «cattolico per caso».
Più netto lo schieramento della comunità ebraica: 66% con i democratici, 24% con i repubblicani. Ma se si considerano i soli ebrei ortodossi, i democratici crollano al 49 per cento. In tutte le religioni i conservatori sono tali sia nella fede che nell’urna. Con un’unica eccezione: tra le congregazioni protestanti afro americane, dove l’opposizione all’aborto è fortissima e i diritti dei gay sono un tabù, il Partito democratico trionfa con il 77% delle preferenze.
Una coalizione tra i gruppi d’immigrati musulmani ha sostenuto George W. Bush nel 2000, solo per ritrovarsi completamente ignorata dalla Casa Bianca quando il Patriot Act scatena controlli e arresti di massa nelle loro comunità. «La lezione ci è servita e siamo ripartiti da zero - spiega Mahdi Bray, direttore della Muslim American Society Freedom Foundation di Washington - Abbiamo abbandonato una leadership politica composta principalmente da medici, avvocati e professionisti per tornare alla nostra base». E la barra si è velocemente spostata verso il Partito democratico. Ma lo stigma che ha colpito gli arabo americani dopo l’11 settembre rimane. «Basta dire Barack Hussein Obama e si è detto tutto- assicura Arsalan Iftikhar, un giurista specializzato in diritti umani che firma sul periodico Islamica Magazine - Non c’è nemmeno bisogno di pronunciare la parola musulmano». Per questo la comunità islamica ha mantenuto un profilo bassissimo nel sostenere Obama. Qualsiasi manifestazione di appoggio sarebbe sfruttata dai repubblicani per incitare la paura e associarlo a Osama Bin Laden.
Al centro culturale islamico nell’East Village a Manhattan gira una battuta: «Noi dobbiamo dare pubblicamente l’endorsement al candidato che vogliamo fare fuori».
La sinistra storica americana raccomanda un prudente secolarismo. In nome della beata separazione tra stato e chiesa. Ricordando anche gli imbarazzi creati a Obama dal suo ex pastore, il reverendo Jeremiah Wright. Scrive Katha Pollit sul settimanale The Nation: "Per anni i democratici hanno cercato di nascondere il proprio secolarismo per attrarre chi è convinto che Gesù sia repubblicano. Ma nessun partito può legittimamente accampare diritti su Gesù. E se si tiene fuori la religione dai temi della campagna elettorale, possiamo discutere di temi concreti come persone razionali. Dopotutto, quale ipotesi è più campata in aria: che il virus dell’Aids sia uscito dai laboratori del governo o che i morti risorgano dalle loro tombe?".

giovedì 19 giugno 2008

La Cei apre a Rutelli

La Cei apre a Rutelli

Il Riformista del 19 giugno 2008, pag. 2

Dopo le parole del Papa all’assemblea generale della Cei in favore del nuovo clima politico - e dunque della nuova compagine di governo - erano iniziate giornate amare per i cattolici del Pd: condannati in un’opposizione invisa alle gerarchie della Chiesa e nella quale ad altro non sembravano costretti se non che all’insignificanza. Poi vennero gli attacchi impietosi di Famiglia Cristiana e de Il Regno: fuoco amico difficile da parare. Ma ieri, la svolta: sul portale piuvoce.net - portale dei "cattolici in rete", che raccoglie ufficialmente le voci più significative del mondo dell’associazionismo cattolico benedetto dai vescovi italiani: tra queste Scienza&Vita, Forum delle associazioni familiari, Retinopera - i cattolici del Pd riescono finalmente a trovare un terreno sul quale lavorare in sintonia con la Cei e il suo presidente Angelo Bagnasco: è il tema dell’emergenza educativa, tema che tanto sta a cuore ai vescovi italiani.



Per la prima volta, sul portale, è stato chiamato a scrivere Francesco Rutelli. Segno che la Cei, i cattolici di sinistra, li vuole attivi e propositivi là dove già stanno: dentro il partito di Veltroni. E Rutelli non ha deluso le aspettative della Chiesa snocciolando «da genitore e da politico», il suo pensiero sulla «priorità più trascurata» dalla politica. L’emergenza educativa, secondo Rutelli, ha diverse sfaccettature. Tra queste il problema della droga, fenomeno «devastante», sintomo di una «fragilità dei processi di conoscenza e qualità dell’apprendimento riguardanti quote crescenti di ragazzi» e «la perdita di autorità e autorevolezza degli insegnanti presso i nostri figli». Quindi «il degrado troppo a lungo tollerato del dominante messaggio televisivo, che premia la devozione al dominio del "dio denaro" e l’emulazione verso l’irresponsabilità, anziché quel coraggio che non è bullismo, ma dedizione all’altro e gratuità del donarsi; rispetto verso il più debole, qualità del concorso al servizio pubblico, civismo».



Le parole di Rutelli sono state affiancate per la prima volta a quelle del neo presidente dell’Azione Cattolica Franco Miano: insomma il cattolicesimo di sinistra ha ancora oggi un terreno sul quale può lavorare con la benedizione dei vescovi. Senza paventare scissioni inopportune.

sabato 14 giugno 2008

Il dio di Bush e di Obama

il Riformista 14.6.08
Il dio di Bush e di Obama
Obama, il missionario della nuova politica
di Benedetto Ippolito

Forse è il momento giusto per riflettere sulla religiosità di Bush e su quella di Obama. Siamo all'indomani del viaggio del presidente degli Stati Uniti a Roma e del suo incontro con Benedetto XVI. E siamo nelle settimane in cui si concretizzerà anche formalmente la candidatura democratica di Barak Obama.
Sembra quasi l'intersezione miracolosa di due periodi diversi della storia che si abbracciano nel presente.
Una cosa è sicura: Obama è il nuovo simbolo del nuovo, mentre Bush il vecchio simbolo del vecchio. Vi è però almeno un fattore unificante, qualcosa che li tiene uniti ineluttabilmente: si tratta dell'americanismo religioso. Benché, infatti, si muovano in uno spazio politico opposto, quasi agli antipodi - conservatore e texano Bush, progressista e afroamericano Obama - entrambi, però, non potrebbero dissociare mai la loro immagine politica da quella religiosa.
Questo fattore comune ad entrambi, tuttavia, non è per nulla un fattore in comune per entrambi.
Per Bush l'11 settembre è stato un evento provvidenziale. Qualcosa di simile ai signa temporum del passato. La sua risposta politico-militare all'evento tragico di minaccia globale del terrorismo si è tradotto in una campagna bellica complessiva al nemico di Dio e dell'Occidente. Lo spartiacque tra Est ed Ovest è divenuto una delimitazione degli spazi geografici e religiosi divisi tra le civiltà: quella cristiana, da un lato, e quella non cristiana, dall'altro. Una visione geopolitica quantomeno discutibile. Così tanto problematica da aver trovato il maggiore oppositore proprio in Papa Giovanni Paolo II. Le conseguenze di quelle scelte le abbiamo viste tutti nel "sotto tono" di questa breve visita romana di Bush, quasi un canto del cigno malgrado la cordialità formale.
Dall'altro lato, invece, con Obama ci troviamo davanti ad un modo opposto di concepire la dimensione religiosa nella propria vita e in quella altrui. Si tratta di una diversa «missione» della politica nel globo. Visitando proprio la scorsa settimana una comunità di credenti, Obama ha rivelato al pubblico che la religione è stata sempre per lui il veicolo più efficace per scoprire e comprendere i valori universali che fondano il suo impegno civile e il suo programma di riforma dell'America.
In fondo chi se non un pazzo o un religioso potrebbe credere di candidarsi contro i Clinton e contro i Repubblicani, e magari batterli pure?
Davanti alla staticità monolitica e trionfalistica di Bush, Obama appare come l'incarnazione della novità, il volto riformista dell'America: un'immagine sorridente e popolare che reclama il suo futuro anche per il nostro bene. A noi europei, d'altra parte, Obama piace. E piace perché quello di Obama appare veramente come un fenomeno inconsueto, anomalo, pieno di freschezza. In una visione in cui la religiosità si iscrive soltanto nell'aspetto solenne della gerarchia ecclesiastica, forse egli appare addirittura blasfemo, per non dire eretico. Ma la forza dell'immagine politica di Obama è proprio la naturale traduzione che egli propone dei valori religiosi creduti in un impegno politico personale di trasformazione e di miglioramento pubblico della società. Non si tratta, quindi, di obbedire ad una voce che dal passato indichi cosa deve fare la società per conservarsi, ma l'emergere repentino e sfavillante di una forza e di una vitalità civile a partire dal cuore stesso dell'America. Ben diverso da quel «farsi perdonare» la fede con cui Kennedy mosse i suoi primi passi politici.
Così gli Stati Uniti ci presentano, in definitiva, un duplice volto: quello delle grandi identità, dei grandi riferimenti rassicuranti, e quello delle grandi aspirazioni universali di libertà. Quale sia la strada migliore emergerà dal succedersi delle vicende. Bisogna vedere, infatti, se Obama convincerà gli elettori clintoniani del suo partito e, soprattutto, se convincerà i cittadini americani nel loro insieme a non privilegiare il consolante McCain.
Di sicuro, però, a prescindere dal tipo di percorso che inizierà a novembre, gli Stati Uniti hanno risolto da sempre alla radice un problema che per noi appare invece insormontabile: quello della laicità. Non soltanto Obama esprime un pensiero politico che si oppone ad ogni forma di fondamentalismo religioso e di conservatorismo teo-con, ma egli propone un'alternativa forte a tutte le forme di esibizione strumentale della religione che vengono fatte di solito anche a sinistra. Il tutto partendo da una legittima motivazione religiosa.
In questo senso, la visione politica di Obama è espressione pubblica dei valori religiosi, i quali tuttavia sono corrispondenti alla più schietta e più autentica laicità. Non viene usata la politica come strumento religioso di parte, ma viene fatta vivere la religione su di un piano che è autenticamente politico, autenticamente democratico, animatamente riformista, senza ostentazioni confessionali e in modo condivisibile anche da chi non crede per nulla.
Chissà se sarà mai realmente possibile anche da noi vedere qualcosa di simile.
Benedetto Ippolito

Benedetto XVI e Bush: patto di ferro sui valori tradizionali

l’Unità 14.6.08
Benedetto XVI e Bush: patto di ferro sui valori tradizionali
I due leader hanno mostrato grande amicizia ma la conversione del presidente resta una voce
di Marina Mastroluca

«CHE ONORE, CHE ONORE, che onore». Appena sceso dalla limousine nera che lo ha scortato in Vaticano, il presidente Bush si lascia vincere dall’entusiamo. È davvero un trattamento d’eccezione quello che gli ha riservato il Pontefice, ricevendolo co-
me uno di famiglia. Non nella biblioteca privata, come vuole la consuetudine, ma nello studio «rotondo» al primo piano della medioevale Torre di San Giovanni per salire i gradini che affacciano su un panorama mozzafiato e poi lasciarsi riprendere dalle telecamere del Centro televisivo vaticano: fianco a fianco, Benedetto XVI e George W.Bush come vecchi amici, mentre passeggiano nei giardini Vaticani e assistono, seduti su semplice sedie da giardino, all’esecuzione di due mottetti eseguiti dal Coro della Cappella Sistina, la first lady a distanza scortata dal segretario di Stato Tarcisio Bertone. George W. è felice, batte il tempo con il piede mentre i cantori intonano l’«Exultate Deo» di Giovanni Pierluigi da Palestrina.
Infrante le consuetudini e le formalità, c’è aria di famiglia esibita da entrambe le parti. I Bush portano in dono un album con le foto scattate durante la visita del Pontefice alla Casa Bianca, lo scorso aprile, come si farebbe con un vecchio zio che si vede di rado. C’è anche una foto con la firma di Bush. «Che bello!», si è lasciato sfuggire Papa Ratzinger che a sua volta ha regalato una foto autografata al presidente americano: uno scatto che li vede insieme, Benedetto XVI, George e signora, tutti e tre sorridenti. Poi, un dono più formale, il Papa ha consegnato al presidente Usa quattro volumi sulla Basilica di San Pietro.
Trenta minuti di colloquio privato, durante i quali il Pontefice ha rinnovato a Bush la sua «gratitudine» per l’impegno nella difesa dei valori tradizionali. Nessun accenno di conversione al cattolicesimo, come qualcuno aveva vociferato alla vigilia fantasticando sulle ragioni del trattamento privilegiato riservato all’inquilino della Casa Bianca, che era e resta un «cristiano rinato» di stretta osservanza, neocon senza macchia e senza paura che non ha esitato a suo tempo a parlare di crociate contro il terrorismo islamico. Il Papa e Bush parlano anche, informa una nota vaticana, «dei principali temi della politica internazionale: le relazioni tra Stati Uniti d’America e Europa, il Medio Oriente e l’impegno per la pace nella Terra Santa, la globalizzazione, la crisi alimentare e il commercio internazionale, l’attuazione degli obiettivi del millennio».
Nessuna preghiera comune, come era accaduto alla Casa Bianca in aprile, ma grande cordialità: la Santa Sede informa che si è solo voluto ricambiare alla calda accoglienza ricevuta dal Papa a Washington. Via le regole del protocollo, c’è tempo per fare due chiacchiere spensierate. Da bravo americano, Bush si informa su «quanto è grande» lo Stato Vaticano. «Non così grande come il Texas», gli rispondono. E lui: «Sì, ma è più importante».
«Un meraviglioso incontro», è la sigla conclusiva della giornata, affidata a Dana Perino, portavoce della Casa Bianca, quando Bush e signora sono già partiti dalla tre giorni romana per raggiungere Parigi, dall’amico Sarkozy, detto «l’americano» dai suoi critici. Il clima è cambiato dall’era Chirac e si sapeva. Ma è cambiato anche dal tramonto dell’astro Cecilia: stavolta nessuno farà capricci per sottrarsi ai doveri d’ufficio, non ci saranno tonsilliti diplomatiche come era avvenuto nello scorso agosto, quando l’allora first lady disertò un picnic con i Bush. Carla Bruni è di un’altra pasta. Ha telefonato a Laura Bush mentre era ancora in volo per Parigi per invitarla ad un aperitivo mezz’ora prima della cena ufficiale. Giusto per «cominciare a conoscersi». Nicolas sarà in brodo di giuggiole.

giovedì 12 giugno 2008

Il Pd, i cattolici e le cipolle d’Egitto

l’Unità 12.6.08
Il Pd, i cattolici e le cipolle d’Egitto
di Stefano Ceccanti

Il dibattito sui cattolici e il Pd, anche da parte di qualche organo di stampa cattolica sembra spesso ignorare una saggia massima latina: contra factum non valet argumentum, che potremmo tradurre nell’invito a non fare commenti prima di aver letto attentamente i dati. La ricerca più elaborata, quella di Segatti e Vezzoni, divide l’elettorato in quattro spezzoni: praticanti regolari (tutte le settimane), praticanti irregolari (qualche volta al mese), scarsamente praticanti (qualche volta l’anno), non praticanti-non credenti. Il primo spezzone riguarda il 31% degli italiani, gli altri inglobano ciascuno un 23%.
I praticanti regolari, quelli su cui si discute di più sia per questa particolare consistenza quantitativa, specifica dell’Italia, ma anche perché dopo la fine della Dc è venuto a mancare un partito di riferimento “naturale”, riservano varie sorprese. In primo luogo, essi sono più “bipartitisti” dell’insieme della popolazione, votano sia per il Pdl sia per il Pd più dell’insieme degli italiani. Il Pdl sta al 44 rispetto al 37 tra gli italiani in genere, e il Pd sta al 35 rispetto al 33 complessivo. L’Udc è sostanzialmente nella media, e ciò, insieme ai dati di Pdl e Pd, dimostra che le nostalgie di partiti centristi sono minori tra i praticanti più che tra gli altri e questo persino in un’elezione, dove a differenza delle altre, l’Udc si presentava come equidistante, quindi particolarmente in grado di intercettare voto centrista nostalgico se esso fosse davvero esistito in modo consistente. L’Udc è scavalcato persino dalla Lega, che, però prende il 7% tra i praticanti rispetto all’8% tra gli italiani nel complesso, mentre la Sinistra Arcobaleno, quasi non esiste, si ferma all’1%.
Segatti e Vezzoni ci fanno anche vedere l’evoluzione diacronica del voto, mostrando che i praticanti, essendo più liberi da appartenenze politiche stabili, normalmente accentuano le dinamiche dell’insieme della popolazione. Il Pd era finito in un baratro del 20% circa delle intenzioni di voto intorno alle amministrative del maggio 2007, quando sull’insieme della popolazione stava, com’è noto, intorno al 25%. Per questo sembra destituita di ogni fondamento qualsiasi nostalgia per l’esperienza della coalizione litigiosa dell’Unione, che talora viene riproposta proprio a partire dall’analisi del voto dei praticanti. Nei mesi successivi, dalle primarie fino alle politiche, con la proposta dell’andare liberi, il Pd recupera ben 15 punti tra i praticanti regolari e finisce sovrarappresentato di due punti rispetto all’insieme della popolazione, mentre la Sinistra Arcobaleno, che viene maggiormente identificata con i veti di quella stagione, quasi scompare tra i praticanti. Non sembra pertanto evidente neanche un effetto negativo della presenza dei radicali.
Questo insieme di dati, statici (bipartitizzazione) e dinamici (netta e costante ripresa) conferma, come ha spesso sostenuto in controtendenza il sociologo Diotallevi, e al contrario di quello che sembra sostenere Famiglia Cristiana con la critica speculare a Veltroni e Berlusconi, che i praticanti italiani sono particolarmente in sintonia con la modernizzazione politica, sono elettori di centro, ma non sono interessati a partiti identitari di centro.
Più semplice il discorso sullo spezzone opposto, quello dei non praticanti e dei non credenti, dove il Pd raggiunge il 53%, e anche su quello ad esso limitrofo degli scarsamente praticanti dove ottiene il 39% contro il 34% del Pdl, il che dovrebbe indurre a non eccedere in enfasi sulla presunta carenza della laicità del Pd, su quella che sarebbe una timidezza nell’affrontare il tema dei diritti, dove invece il Pd cerca solo equilibrio e saggezza, visto che gli elettori “più laici” questi dubbi non sembrano avvertirli.
Il vero buco il Pd ce l’ha invece solo nella seconda fascia, quello dei praticanti irregolari, cioè tra quegli elettori che, ancor più dei praticanti regolari, sono più interessati alla tenuta complessiva del Paese, di cui colgono uno dei pilastri anche nella Chiesa a cui soggettivamente si sentono di appartenere con molte riserve, che non ai temi cosiddetti “eticamente sensibili” identificati in modo troppo semplicistico e unilaterale.
Qualche anno fa Arturo Parisi invitò i cattolici impegnati del centrosinistra ad affrontare questa parte di elettorato, che già allora era quella più difficile, non col complesso del figlio fedele della parabola del figliol prodigo che è geloso perché si sente stabilmente migliore. Continua ad avere ragione, anche se oggi finisce anch’egli per riproporre una nostalgia dell’Unione che aveva anche lui contribuito a denunciare con l’iniziativa dei referendum elettorali. Da questo punto di vista l’esperienza del Pd è preziosa per tutti, anche per i molti cattolici che vi militano perché, anche per attrarre queste fasce di elettorato, nessuna delle culture originarie che affluiscono nel Pd può considerarsi pienamente in grado di dare risposte da sola.
Le tentazioni vere o false di scissioni, sono come le nostalgie per le cipolle d’Egitto durante l’Esodo, e i tentativi di creare correnti rigide che alludono a divisioni di strategia politica rifiutando poi, se vi fossero davvero, la logica conseguenza di un Congresso, sono vie di fuga dell’adorazione di vitelli d’oro. Indietro non si può tornare, anche perché le soluzioni tradizionali legate alle culture politiche precedenti sono consumate, e neanche scartare di lato verso false certezze. Abbiamo iniziato un cammino con alcuni risultati non da poco: proseguiamolo o, se abbiamo dubbi, mettiamo democraticamente in discussione, se esistano altre mete ed altri percorsi per raggiungerle. I praticanti hanno accettato positivamente l’Esodo dai partiti di centro e così indicano anche al Pd la strada di vivere con fede laica comune un altro Esodo, quello iniziato con le primarie e non negato dal risultato elettorale.

martedì 10 giugno 2008

Famiglia Cristiana attacca "Veltroni tradisce i cattolici"

Famiglia Cristiana attacca "Veltroni tradisce i cattolici"

La Stampa del 10 giugno 2008, pag. 10

di Amedeo La Mattina

Famiglia Cristiana attacca a testa bassa il Pd proprio in un momento in cui Veltroni è alle prese con una serie di movimenti interni che non lasciano presagire nulla di buono. Con un editoriale il settimanale ritorna sull’elezione della pattuglia dei Radicali, sostenendo che in questo modo Veltroni avrebbe tradito le attese dei cattolici. Ma la rivista dei Paolini va oltre: suggerisce addirittura di dare il benservito a «Pannella e soci». «A nostro avviso, ciò sanerebbe il "peccato originale" di Veltroni e rilancerebbe il Pd». Un intervento a gamba tesa, così viene vissuto al loft questo editoriale di Famiglia Cristiana che si conclude con un avvertimento: «Una parte consistente dei deputati dell’ex Margherita si sta interrogando sul perché della loro permanenza nel Pd col rischio che possano prendere la stessa decisione degli elettori. Perché dovrebbero fare la riserva indiana nel Pd? Oltre che minoranza, sarebbero minoritari e insignificanti. Chi ha più sentito Bobba o la Binetti?». Insomma, Veltroni si farebbe condizionare dai Radicali e avrebbe imposto la «pax veltroniana» che è un «alibi per evitare ogni confronto interno»: allora «all’Assemblea costituente del Pd, forse, sarà bene interrogarsi sulla leadership e una gestione poco collegiale. Altrimenti, avrebbe ragione padre Sorge: Veltroni ha così semplificato la politica italiana da far sparire anche il partito dell’opposizione».



Nel quartier generale del Pd c’è molto stupore, incredulità per parole così accese e una voglia di reagire duramente a quello che una volta era considerato l’unico giornale cattolico amico. Ma le smentite di un esodo arrivano subito proprio da Bobba e Binetti. La senatrice teodem spiega che da parte sua «non c’è alcuna remota intenzione né di uscire dal Pd né di promuovere una scissione». Ed Enzo Carra rifiuta l’idea di dipingere i cattolici come a degli opportunisti pronti a sbarcare altrove. A liquidare come «fantasie» l’ipotesi dell’emorragia cattolica è il vicesegretario del Pd Dario Franceschini, mentre il vicecapogruppo del Senato Luigi Zanda parla di «espressioni cattive, violente e ingiuste».



Il problema è che la sciabolata di Famiglia Cristiana mette oggettivamente in difficoltà tutta la componente ex Margherita-Popolari che da tempo sono alle prese con un’analisi del voto che li indica come l’anello debole del mancato sfondamento verso il centro moderato. Tra l’altro tutto questo succede nel giorno in cui Franco Marini plaude alla leadership di Veltroni e alla sua capacità di fare sintesi anche con i Radicali. E’ chiaro che i cattolici del Pd si sentono sotto schiaffo e vedono in quella del settimanale dei Paolini come una mossa politica tutta pro Pdl. A reagire è tutta la filiera che ha buoni rapporti con Oltretevere. A cominciare dall’ex ministro Giuseppe Fioroni che definisce l’editoriale «ingiusto e troppo "radicale"». Per Marco Follini c’è «una punta di severità di troppo». Il capogruppo alla Camera Antonello Soro lo definisce «inaccettabile» e bolla il settimanale come «fazioso»: «Così non fa un buon servizio ai cattolici». «Nelle critiche al Pd - è insorta Rosy Bindi - Famiglia cristiana esprime una posizione che mi pare arretrata». In difesa di Veltroni e anche dei Radicali è scesa in campo anche l’ala laica dell’ex Ds, con in testa Anna Finoccharo che si dice «davvero stupita: quello che più sorprende è la durezza dei toni e di certe affermazioni, come quelle sprezzanti nei confronti dei Radicali». E poi ha aggiunto Franceschini «i cattolici nel Pd sono tantissimi tra gli elettori».

Pd, Famiglia Cristiana scuote i cattolici I teodem: restiamo nel partito, per ora

Pd, Famiglia Cristiana scuote i cattolici I teodem: restiamo nel partito, per ora

La Repubblica del 10 giugno 2008, pag. 11

di Goffredo De Marchis

Un attacco al Partito democratico, «fantasma infettato» dall’assenza di valori dei centrodestra. Il dito puntato contro Veltroni colpevole di aver semplificato la politica fino «a far sparire l’opposizione». Poi, il pronostico: «Una parte consistente dei deputati dell’ex Margherita si sta interrogando sul perchè della permanenza nel Pd, col rischio che possano prendere la stessa decisione degli elettori». Cioè, lasciare ìl loft, dare vita a una scissione. L’editoriale di Famiglia cristiana non fa sconti al Pd. Il settimanale dei Paolini, considerato vicino al centrosinistra, dice che i cattolici sono «insignificanti e minoritari» nel Partito democratico. Perciò all’assemblea costituente del 20 giugno «bisogna interrogarsi sulla leadership e una gestione poco collegiale». E sulla presenza dei radicali.



L’offensiva spiazza Veltroni. «Mi amareggia, è veramente eccessiva», ribatte laconico. Ma tutto il Pd viene chiamato in causa e i cattolici di più. «Sembra di stare a Teheran», reagisce Beppe Fioroni. Dirigente di area exPpi, il capo dell’organizzazione del Pd difende il ruolo dei credenti nel nuovo partito. E contrattacca: «Le parole di Famiglia cristiana sono frutto di un vero ostracismo al cambiamento. Ingiuste, violente. Ma non c’è un solo cattolico nel campo dei popolari pronto a lasciare il Pd». I cattolici che hanno sposato il progetto democratico sono ovviamente impegnati a sottolineare che il loro peso nel loft non è venuto meno. Ma qualcuno potrebbe essere davvero tentato da una clamorosa scissione? L’attenzione si concentra sulla pattuglia dei teodem. Paola Binetti smentisce («sfamo impegnati nella costruzione del Pd») ma aggiunge «in questo momento». Enzo Carra contesta la versione fornita dal settimanale: «I radicali non hanno avuto alcuna influenza nella politica del Pd finora». Ma ammette: «Che qualcuno cerchi una forma di integrazione con l’Udc è vero. E contatti più stretti non sarebbero inutili».



Insomma, il problema; la sofferenza, sono reali. Dario Franceschini giudica «fantasie» le previsioni funeste di Famiglia cristiana. Fioroni invita il settimanale a «non avere tentazioni nostalgiche. E a ricordarsi che se De Gasperi avesse ridotto i cattolici in una riserva non avrebbe mai governato l’Italia». Non vede da dove, per il momento, potrebbe arrivare il pericolo di una scissione "religiosa", Fioroni. «Da Parisi? Non penso e comunque lui non è certo l’erede della tradizione degasperiana. Da Rutelli? Non ci credo». Ma l’attacco del periodico s’intreccia a motivi di tensione diversi dalla visibilità dei cattolici dentro il Pd. L’ex leader della Margherita non molla la presa sulla collocazione internazionale del Pd. «Con i partiti socialisti messi male in tutto il continente e un possibile calo del Pd nel 2009, il giocattolo rischia di sfasciarsi davvero - è il ragionamento di Rutelli - . A Veltroni ho detto che deve prendere un’iniziativa forte e autonoma in Europa. E che non basta aggiungere l’aggettivo democratici al gruppo di Strasburgo». L’adesione al Pse «è un’ipotesi lunare», avverte il cattolico Marco Follini. E un altro nodo che viene al pettine.



Dagli ex Ds viene una condanna di Famiglia cristiana pesante quanto l’editoriale. «I toni sprezzanti nei confronti dei radicali mi sorprendono - dice Anna Finocchiaro -. E comunque il Pd non nasce per difendere solo i valori cattolici». Il cattolico ex Quercia Stefano Ceccanti contesta l’analisi sulla base dei dati: «Il 35 per cento dei praticanti ha votato il Pd, due punti in più della percentuale complessiva. Non si sono preoccupati della presenza di 9 radicali, evidentemente». I numeri sono incontrovertibili, ma non bastano a cancellare la scossa di Famiglia cristiana.

I nuovi rapporti tra Stato e chiesa

La Repubblica 10.6.08
I nuovi rapporti tra Stato e chiesa
di Aldo Schiavone

A leggere, più a freddo, i commenti del giorno dopo, sembra proprio che l´effetto, ancora una volta, sia stato raggiunto. Con il duplice, studiatissimo bacio deposto sull´anello di Benedetto XVI all´inizio e alla fine del loro ultimo incontro, Silvio Berlusconi ha fatto ricorso all´immagine di una inattesa sottomissione per lanciare un messaggio inequivocabile: è arrivato, in Italia, il momento di una nuova alleanza fra Chiesa e guida politica del Paese. Il gesto, al posto della parola o del discorso, per trasmettere in modo sintetico e diretto il senso di una scelta. Comunicare è vincere. Poi si ragionerà. La centralità della "questione cattolica" è stata così riproposta con il valore di un annuncio e di un programma. Insieme a tanti altri aspetti del nostro passato, è venuto il momento – questo voleva dire quell´inchino – di mettere da parte anche la difficile e ingombrante laicità che aveva accompagnato finora il nostro cammino repubblicano. Fra i due lati del Tevere può scorrere ormai una nuova acqua.
Qualche tempo fa, avevo scritto su questo giornale di "un´onda neoguelfa" che sta scuotendo nel profondo la nostra società – un sentimento diffuso che assegna al Pontefice l´esercizio di una specie di protettorato nei confronti della democrazia italiana, e ne fa il custode della stessa unità morale della nazione. Ebbene, con il suo gesto Berlusconi ha assunto pienamente la leadership di questa tendenza, cercando di piegarla a suo vantaggio. In questo senso, il bacio all´anello viene dal capopartito, più che dal presidente del Consiglio: serve a completare la collocazione postelettorale del Pdl, prima che a trasmettere una certa idea del Governo e dello Stato.
Di fronte alla nettezza di questa posizione, la cosa più sbagliata sarebbe di sottovalutarne la portata e l´importanza, riducendola a un semplice aggiustamento tattico, dettato solo da un opportunismo di corto respiro. Non è così. Al contrario, essa nasconde una valutazione strategica, e si fonda su un´intuizione non banale dei cambiamenti in atto. È vero: la fine della stagione democristiana, non meno che i mutamenti del nostro scenario sociale e mentale, ci stanno spingendo verso la sperimentazione di nuovi intrecci, anche organizzativi, fra religione e politica, che si presentano in termini molto diversi rispetto al nostro più recente passato. Ed è proprio intorno a questo groviglio – alla capacità di darvi una forma matura e compiuta – che sarà combattuta la battaglia per la futura egemonia culturale del Paese, per la costruzione del tessuto intellettuale e morale in cui vivremo.
Le religioni monoteiste tendono ad avere tutte, geneticamente, un rapporto strettissimo con la politica. La loro pretesa di interezza – controllare l´uomo nella totalità della sua esistenza – e la loro esclusività («non avrai altro Dio…») le immettono sin dall´inizio in uno spazio di potere e di violenza. Il messaggio cristiano ha cercato tuttavia di spezzare in modo rivoluzionario questo nodo, recidendolo con un colpo di spada ignoto alle altre tradizioni: «A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio», come leggiamo nei Sinottici. Lungo tutta la sua storia, l´Occidente ha cercato di elaborare questa separazione, offrendone di volta in volta letture prudentemente concilianti o aspramente radicali. In questo cammino, un punto di forza della modernità è stata la distinzione fra interiorità della coscienza ed esteriorità della norma giuridica, riflessa nel corrispondente principio della neutralità etica dello Stato e del discorso pubblico che ne sorregge le basi.
Ora, il punto è che questa divisione, così come ci è stata consegnata dai classici, non regge più, e in questa crisi c´è un fortissimo segno del nostro tempo. Lo Stato e la politica (per non parlare del diritto) piuttosto che distanziarsene, hanno sempre maggior bisogno di integrare al loro interno contenuti etici forti e vincolanti, per essere in grado di disciplinare la potenza di economie e di tecniche onnipotenti, capaci di incidere sulla vita e sulla morte, di trasformare il naturale in artificiale, di arrivare a toccare lo stesso statuto biologico dell´umano. E nel conseguente corto circuito che si sta determinando finisce con il saltare ogni distinzione fra coscienza interiore e discorso pubblico, fra legge e moralità, almeno per quanto riguarda alcuni terreni decisivi, dalla genetica alla procreazione, all´idea di matrimonio e di famiglia. In un simile quadro, la pretesa di tener fuori della politica – della biopolitica che decide sulla forma della vita – il magistero morale della Chiesa, proprio nel momento in cui più acuta se ne fa la domanda a causa dell´incertezza che stiamo attraversando, diventa una pretesa assurda.
Dobbiamo saperlo accettare: i confini fra quel che è di Cesare e quel che è di Dio hanno assunto contorni imprevisti, e passano su terre incognite, che appena cominciamo a esplorare. Non abbiamo bisogno di una nuova laicità per attraversarle, ma piuttosto di sondare le possibilità di una integrazione inedita tra fede e ragione, che ci accompagni almeno per un certo tratto di strada, al di là di vecchi e inservibili steccati.
Riconoscere pienamente il diritto della Chiesa di intervenire con tutto il suo peso nel discorso pubblico sull´intreccio fra etica, Stato e diritto che darà forma al futuro del Paese non deve significare però attribuirle un primato a priori. Vorremmo che questo fosse chiaro a Berlusconi e ai suoi consiglieri.
Quando l´esperienza religiosa diventa discorso pubblico, la sua verità, la sua pretesa di assoluto, devono, per dir così, accettare di relativizzarsi. Ogni democrazia è, intrinsecamente, una democrazia relativa, quanto al merito delle sue decisioni. Una Chiesa che abbia davvero compiuto quell´"autocritica" rispetto alla modernità di cui parla Benedetto XVI deve essere in grado non di rinunciare all´assoluto – e dunque alla vocazione a evangelizzare e convertire – ma alla pretesa di imporlo in quanto corazzato di potere, al di fuori di una limpida formazione del consenso democratico. È un passaggio non facile: e tuttavia non se ne intravedono altri, se non rovinosi. L´ultima cosa di cui l´Italia ha bisogno è di ritrovarsi ancora divisa fra "laici" e "cattolici". Sono convinto che la fine della Dc abbia anche condotto al tramonto del cosiddetto "cattolicesimo democratico" (ha ragione in questo Gaetano Quagliariello che ne ha appena parlato in un convegno). Il Pd dovrà tenerne debito conto. Ma come oggi sono improponibili i paradigmi di una laicità che ha perduto i suoi presupposti storici, sarebbe altrettanto inaccettabile qualunque tentativo da parte delle gerarchie cattoliche di attribuirsi il ruolo di ago della bilancia nel nascente bipartitismo italiano, per poter dettare con più agio le proprie soluzioni. Arrivano purtroppo segnali non tranquillizzanti in questa direzione. Il Pdl farebbe bene a non incoraggiarli, e a non eccedere. Prima o poi, ne pagherebbe il prezzo.

I nuovi rapporti tra Stato e Chiesa

I nuovi rapporti tra Stato e Chiesa

La Repubblica del 10 giugno 2008, pag. 26

di Aldo Schiavone

A leggere, più a freddo, i commenti del giorno dopo, sembra proprio che l’effetto, ancora una volta, sia stato raggiunto. Con il duplice, studiatissimo bacio deposto sull’anello di Benedetto XVI all’inizio e alla fine del loro ultimo incontro, Silvio Berlusconi ha fatto ricorso all’immagine di una inattesa sottomissione per lanciare un messaggio inequivocabile: è arrivato, in Italia, il momento di una nuova alleanza fra Chiesa e guida politica del Paese. Il gesto, al posto della parola o del discorso, per trasmettere in modo sintetico e diretto il senso di una scelta. Comunicare è vincere. Poi si ragionerà. La centralità della «questione cattolica" è stata così riproposta con il valore di un annuncio e di un programma. Insieme a tanti altri aspetti del nostro passato, è venuto il momento - questo voleva dire quell’inchino - di mettere da parte anche la difficile e ingombrante laicità che aveva accompagnato finora il nostro cammino repubblicano. Fra i due lati dei Tevere può scorrere ormai una nuova acqua.



Qualche tempo fa, avevo scritto su questo giornale di "un’onda neoguelfa" che sta scuotendo nel profondo la nostra società - un sentimento diffuso che assegna al Pontefice l’esercizio di una specie di protettorato nei confronti della democrazia italiana, e ne fa il custode della stessa unità morale della nazione. Ebbene, con il suo gesto Berlusconi ha assunto pienamente la leadership di questa tendenza, cercando di piegarla a suo vantaggio. In questo senso, il bacio all’anello viene dal capopartito, più che dal presidente del Consiglio: serve a completare la collocazione postelettorale del Pdl, prima che a trasmettere una certa idea del Governo e dello Stato.



Di fronte alla nettezza di questa posizione, la cosa più sbagliata sarebbe di sottovalutarne la portata e l’importanza, riducendola a un semplice aggiustamento tattico, dettato solo da un opportunismo di corto respiro. Non è così. Al contrario, essa nasconde una valutazione strategica, e si fonda su un’intuizione non banale dei cambiamenti in atto. È vero: la fine della stagione democristiana, non meno che i mutamenti del nostro scenario sociale e mentale, ci stanno spingendo verso la sperimentazione di nuovi intrecci, anche organizzativi, fra religione e politica, che si presentano in termini molto diversi rispetto al nostro più recente passato. Ed è proprio intorno a questo groviglio - alla capacità di darvi una forma matura e compiuta-che sarà combattuta la battaglia per la futura egemonia culturale del Paese, perla costruzione del tessuto intellettuale e morale in cui vivremo.



Le religioni monoteiste tendono ad avere tutte, geneticamente, un rapporto strettissimo con la politica. La loro pretesa di interezza- controllare l’uomo nella totalità della sua esistenza- e la loro esclusività («non avrai altro Dio... ») le immettono sin dall’inizio in uno spazio di potere e di violenza. Il messaggio cristiano ha cercato tuttavia di spezzare in modo rivoluzionario questo nodo, recidendolo con un colpo di spada ignoto alle altre tradizioni: «A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio», come leggiamo nei Sinottici. Lungo tutta la sua storia, l’Occidente ha cercato di elaborare questa separazione, offrendone di volta in volta letture prudentemente concilianti o aspramente radicali. In questo cammino, un punto di forza della modernità è stata la distinzione fra interiorità della coscienza ed esteriorità della norma giuridica, riflessa nel corrispondente principio della neutralità etica dello Stato e del discorso pubblico che ne sorregge le basi.



Ora, il punto è che questa divisione, così come ci è stata consegnata dai classici, non regge più, e in questa crisi c’è un fortissimo segno del nostro tempo. Lo Stato e la politica (per non parlare del diritto) piuttosto che distanziarsene, hanno sempre maggior bisogno di integrare al loro interno contenuti etici forti e vincolanti, per essere in grado di disciplinare la potenza di economie e di tecniche onnipotenti, capaci di incidere sulla vita e sulla morte, di trasformare il naturale in artificiale, dì arrivare a toccare lo stesso statuto biologico dell’umano. E nel conseguente corto circuito che si sta determinando finisce con ii saltare ogni distinzione fra coscienza interiore e discorso pubblico, fra legge e moralità, almeno per quanto riguarda alcuni terreni decisivi, dalla genetica alla procreazione, all’idea di matrimonio e di famiglia. In un simile quadro, la pretesa di tener fuori della politica - della biopolitica che decide sulla forma della vita - il magistero morale della Chiesa, proprio nel momento in cui più acuta se ne fa la domanda a causa dell’incertezza che stiamo attraversando, diventa una pretesa assurda.



Dobbiamo saperlo accettare: i confini fra quel che è di Cesare e quel che è di Dio hanno assunto contorni imprevisti, e passano su terre incognite, che appena cominciamo a esplorare. Non abbiamo bisogno di una nuova laicità per attraversarle, ma piuttosto di sondare le possibilità di una integrazione inedita tra fede e ragione, che ci accompagni almeno per un certo tratto di strada, al di là di vecchi e inservibili steccati.



Riconoscere pienamente il diritto della Chiesa di intervenire con tutto il suo peso nel discorso pubblico sull’intreccio fra etica, Stato e diritto che darà forma al futuro del Paese non deve significare però attribuirle un primato a priori. Vorremmo che questo fosse chiaro a Berlusconi e ai suoi consiglieri.



Quando l’esperienza religiosa diventa discorso pubblico, la sua verità, la sua pretesa di assoluto, devono, per dir così, accettare di relativizzarsi. Ogni democrazia è, intrinsecamente, una democrazia relativa, quanto al merito delle sue decisioni. Una Chiesa che abbia davvero compiuto quell’”autocritica" rispetto alla modernità di cui parla Benedetto XVI deve essere in grado non di rinunciare all’assoluto - e dunque alla vocazione a evangelizzare e convertire - ma alla pretesa. di imporlo in quanto corazzato di potere, al di fuori di una limpida formazione del consenso democratico. E un passaggio non facile: e tuttavia non se ne intravedono altri, se non rovinosi. L’ultima cosa di cui l’Italia ha bisogno è di ritrovarsi ancora divisa fra "laici" e "cattolici". Sono convinto che la fine della Dc abbia anche condotto al tramonto del cosiddetto "cattolicesimo democratico" (ha ragione in questo Gaetano Quagliariello che ne ha appena parlato in un convegno). Il Pd dovrà tenerne debito conto. Ma come oggi sono improponibili i paradigmi di una laicità che ha perduto i suoi presupposti storici, sarebbe altrettanto inaccettabile qualunque tentativo da parte delle gerarchie cattoliche di attribuirsi il ruolo di ago della bilancia nel nascente bipartitismo italiano, per poter dettare con più agio le proprie soluzioni. Arrivano purtroppo segnali non tranquillizzanti in questa direzione. Il Pdl farebbe bene a non incoraggiarli, e a non eccedere. Prima o poi, ne pagherebbe il prezzo.

lunedì 9 giugno 2008

IL CAVALIERE DEI CATTOLICI

Il Piccolo, 8 giugno 2008
IL CAVALIERE DEI CATTOLICI
di Sergio Baraldi
Non è stato un incontro rituale quello tra il Papa Benedetto XVI e Berlusconi IV, forse perché segna la fine della questione democristiana nel Paese. Nel senso che dalla fine della Dc è sempre rimasta in sospeso la questione di chi rappresenti i cattolici in politica, se mai sia possibile una rappresentanza diretta nell'Italia secolarizzata di oggi. L'incontro ha fornito una prima risposta: la maggioranza dei cattolici alle elezioni ha scelto il Pdl ed ha lasciato cadere le offerte neodemocristiane dell'Udc e della Rosa bianca. Semmai, una quota importante ma minoritaria ha indicato il Pd come possibile polo alternativo. Il Vaticano aveva guardato con interesse alla scommessa di Casini, che non è stata un fallimento, ma ha confermato che l'Italia si è ormai inoltrata nel tempo postdemocristiano: i cattolici votano in molti modi, ma la maggioranza preferisce Berlusconi. Per questo il Cavaliere ha potuto dire che il suo partito come la Dc «non ha bisogno di spiegare da che parte sta».

Quello tra Benedetto XVI e il Berlusconi IV, dunque, non è stato solo un incontro regolato dalla liturgia tra potere spirituale e temporale. Piuttosto è parso il suggello di un mutamento. Da parte della Chiesa c'è stato il riconoscimento che Berlusconi si è conquistato il ruolo con i voti dei cattolici, e gli ha posto richieste precise, dalla scuola all'immigrazione all'aborto; da parte del Cavaliere c'è stato un gesto pubblico di autoaccreditamento come difensore e interprete di questo mondo. Il segno di questa assunzione di rappresentanza è stato il gesto mai compiuto da un capo di governo italiano: il bacio dell'anello del Pontefice, prova di obbedienza, ma anche di legittimazione del vincitore. L'incontro, quindi, sancisce un mutamento che uno studio del nostro collaboratore, il professor Paolo Segatti con il suo collega Paolo Natale, ha descritto con cifre e riflessioni. Non c'è più nostalgia del centro tra i cattolici praticanti o meno, anzi c'è domanda di una semplificazione bipartitica. I cattolici non sono separati dalla società nazionale, ma ne condividono domande, bisogni, comportamenti. Si è instaurata una omologazione che ha creato problemi persino alla Chiesa, che oggi fatica a mobilitare i credenti.


Questa realtà è visibile da qualche anno, ma l'ultimo voto l'ha consacrata, ponendo non pochi interrogativi alla politica. Come affrontare, infatti, questa novità? È corretto un approccio che punti sull'antinomia laicità-clericalismo? Sostenere che, schierandosi a fianco della gerarchia ecclesiastica, Berlusconi non potrà rappresentare quella parte rilevante della società che non è cattolica o credente, si deve ritenere un argomento decisivo? Proprio l'ultimo voto si è incaricato di spiegarci che questo tema non è risolutore. Ma occorre dire che non convince neppure l'idea sulla quale ha puntato parte del centrosinistra, cioè quella di opporre la virtù privata dei suoi leader alla pubblica incoerenza di alcuni leader del centrodestra. Proporsi come modelli di matrimoni e famiglie «veramente» cattolici, contro le molte famiglie degli «altri», al massimo procura un certificato di coerenza. La virtù personale non basta a garantire una mediazione tra la modernità e l'intangibilità dei valori cristiani. L'affidabilità non è ritenuta una carta sufficiente per ottenere consenso. La questione cattolica, quindi, resta determinante perché parla al Paese e del Paese.

Gli elettori cattolici hanno guardato soprattutto all'idea di società che veniva loro proposta. Essi vogliono un Paese sicuro, ordinato, attento alle differenze, persino severo, che ponga al centro una politica per l'educazione e la famiglia. Desiderano un messaggio forte che evochi l'idea di una società guidata da valori e da una missione. Questa identificazione è scattata più con Berlusconi che con Veltroni. Si può discutere se il centrodestra fornisca di questa aspettativa un'interpretazione adeguata o no. Ma chi vuole competere con il Cavaliere non può far leva sulla laicità dello Stato. Invece, deve trovare il modo di offrire a questi elettori un'idea differente di libertà unita alla responsabilità, di sicurezza collegata alla solidarietà. Ma questo non è anche ciò che cercano gli italiani, cattolici o no? Se così è, Benedetto XVI e Berlusconi IV hanno mostrato il perimetro nel quale si gioca la sfida.
(08 giugno 2008)

sabato 7 giugno 2008

Scuole cattoliche, legge 40 e la benedizione vaticana

l’Unità 7.6.08
Scuole cattoliche, legge 40 e la benedizione vaticana
di Roberto Monteforte

La benedizione c’è stata. Come pure la genuflessione. Può essere soddisfatto Silvio Berlusconi dell’udienza di ieri con papa Benedetto XVI con tanto di baciamano. Si può sentire rassicurato papa Ratzinger e il suo stretto collaboratore, il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, che hanno deciso di puntare sulla «carta Berlusconi» e sul «nuovo corso» politico maturato con il dopo voto. Se stabilità, governabilità e dialogo tra maggioranza e opposizione «nell’interesse superiore del paese» sono la cornice fondamentale indicati dalla Chiesa e dallo stesso pontefice per risollevare il Paese dalla sua crisi, allora pare proprio che il governo di centrodestra si sia accredidato come sponda affidabile e ancora più robusta dopo il responso elettorale.
Non solo per le opportunità che offrirebbe il «nuovo clima» politico. L’apertura di credito è anche sui contenuti, su temi come la difesa della vita e la dignità della persona, sulle risposte concrete da dare alle domande delle della famiglie e all’emergenza educativa, che consentano di garantire un futuro alle giovani generazioni, compresi quegli stanziamenti a favore delle scuole cattoliche, sui temi etici e sulla possibilità di coniugare sicurezza e risposte rispettose della dignità delle persone anche al fenomeno dell’immigrazione.
Il presidente del Consiglio pare accettare la sfida. Mostra la sua disponibilità ad affrontare l’agenda fitta e impegnativa indicata da Benedetto XVI nel suo discorso alla recente assemblea dei vescovi italiani. Un discorso che deve essere stato studiato a fondo dallo staff di Palazzo Chigi. Se aveva già anticipato una sua disponibilità nell’inusuale intervista congiunta concessa a «Radio Vaticana» e all’«Osservatore Romano» che ha spianato la strada all’incontro di ieri, l’ha ribadita nell’intervista resa ieri mattina alla «sua emittente», «Canale 5». «L’atteggiamento del governo - afferma - non può che compiacere il Pontefice e la sua Chiesa». È un impegno preciso.
La conferma arriva poco dopo. Nella mezz’ora abbondante di colloquio di Silvio Berlusconi, assistito da Gianni Letta, con Benedetto XVI nella Biblioteca privata del pontefice. Definito «lungo e cordialissimo» da una nota Palazzo Chigi e più sobriamente «cordiale» la «nota vaticana». Offre la disponilità del governo il premier. Lo farà anche nell’incontro tra la delegazione italiana e quella vaticana guidata dal segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone. Un’altra quarantina di minuti per affrontare in modo più approfondito per «un giro d’orizzonti» sui temi. Vi è piena identità di vedute tra l’Italia e la Santa Sede e non solo sui nodi di politica estera (dal Medio Oriente al Libano, alla Cina e alla Russia sino all’emergenza alimentare e al sostegno ai paesi più deboli). Quello che Berlusconi ribadisce è il forte apprezzamento per «il contributo della Chiesa cattolica alla vita del paese» e per la «costruttiva collaborazione» bilaterale e a livello europeo, per il suo contributo «nella sua azione sul piano interno e internazionale ai valori di libertà e tolleranza ed alla sacralità della persona umana e della famiglia». Parole suadenti e rassicuranti, pronunciate tra sorrisi e cordialità che devono essere state apprezzate in Vaticano. Ma i punti fermi restano, compresa quella richiesta di coniugare tolleranza e rispetto della persona umana e della vita. Che per la Chiesa vuole dire sicuramente politiche a sostegno della vita e contro l’aborto, ma anche porsi il tema dell’immigrazione garantendo adeguate politiche dell’accoglienza e dell’integrazione, senza imbracciare il fucile. Questo vuole dire mettere da parte il reato di immigrazione clandestina. Si mostra disponibile il premier. Afferma di ritenerlo «impraticabile». È un gesto apprezzato.
Per definire le soluzioni concrete c’è tempo. Soprattutto perché il governo si presenta solido. Dà l’idea di durare. Sui temi che richiamano il «bene comune» può contare sull’appoggio dell’opposizione. E si presenta pronto ad accogliere le sollecitazioni della Chiesa.
Come ha ribadito il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco quello che conta davvero e su cui si giudica un governo, «sono i frutti». Le risposte concrete che vengono date. Per ora vi è la benedizione del Papa e della Chiesa e il governo Berlusconi incassa. Si vedrà se arriveranno e quando il «quoziente familiare» e gli altri aiuti alle famiglie, le decisioni a favore della vita, lo stop a quelle misure come le linee guida sulla legge 40 sulla fecondazione assistita della Turco, ritenute eticamente sensibili e quei finanziamenti alle scuole cattoliche esplicitamente richiesti dal Papa. Per ora Berlusconi assicura «la volontà di continuare la costruttiva cooperazione» tra Santa Sede e Italia.

Silvio IV: «Dobbiamo compiacere la Chiesa»

l’Unità 7.6.08
Silvio IV: «Dobbiamo compiacere la Chiesa»
L’incontro con il Papa diventa un atto di sottomissione: e promette il quoziente familiare nel Dpef
di Natalia Lombardo

DUE BACIAMANO esagerati a Papa Benedetto XVI suggellano il senso della visita di Silvio Berlusconi in Vaticano. Un senso anticipato dure ore prima delle reti di casa Mediaset: «L’attività del governo non può che compiacere lo Stato e la sua Chiesa», ha
detto il presidente del Consiglio intervenuto al telefono con Belpietro su Canale5, nel quale ha «ringraziato» l’apprezzamento del Papa al «nuovo clima» che si è creato col suo governo.
Il corteo di auto con Berlusconi è arrivato al cortile di San Damaso all’interno della Città del Vaticano alle 10,45, con un leggero anticipo. Accompagnato da Gianni Letta, Paolo Bonaiuti, l’ambasciatore presso la Santa Sede, Zanardi Landi, Mauro Masi e altri funzionari di Palazzo Chigi, unica donna Anna Nardini, capo Ufficio studi in nero e veletta. Accolti dal picchetto delle Guardie Svizzere e dal prefetto della Casa Pontificia, hanno atteso dieci minuti nella sala del tronetto: un Berlusconi in doppiopetto blu molto ciarliero con i vari «gentiluomini» di Sua Santità; lo è diventato l’anno scorso anche Letta, che cercava di calmierare l’allegria di Silvio IV, più da party che da anticamera vaticana.
Papa Ratzinger ha salutato il premier col suo accento tedesco, l’altro si è tuffato a baciare l’anello del Pescatore del pontefice, anziché accennare il gesto come da protocollo, rispettato da Letta.
L’«Eminenza azzurrina» ha partecipato all’incontro a porte chiuse nella biblioteca del pontefice. Il clima sembra cordiale fin dall’inizio, un po’ lo stesso copione del 2005. Berlusconi, per la quinta volta in Vaticano, rompe l’imbarazzo suscitandolo negli altri. Inizia con le battute ai fotografi: «Sono più bravi a piazzare le foto che a farle», poi lascia di stucco il Capo del Cerimoniale di Palazzo Chigi, Eugenio Ficorilli, quando davanti al pontefice si è chinato ad abbottonargli la giacca: «Non ha ancora imparato ad allacciarsi i bottoni...», maligna Silvio che insiste: «Santità, guardi cosa deve fare un Presidente del Consiglio...».
L’incontro non ufficiale ma in forma privata, preparato da giorni, ha toccato vari temi accennati per titoli nei comunicati di Palazzo Chigi e della Santa Sede. La famiglia, con assicurazioni da parte del premier sull’aumento degli aiuti, anche alla scuola privata e sul «quoziente familiare» nel Dpef di giugno. Poi i temi internazionali come il Libano, il processo di pace in Medio Oriente, fino alla Russia e la Cina, l’emergenza alimentare, spiega il comunicato che sottolinea «ampie identità di vedute». Nell’inusuale intervista che ha anticipato l’incontro, sull’Osservatore Romano e su Radio vaticana, Berlusconi dà via libera agli Ogm, bloccati da Alemanno quand’era ministro.
Il tema dell’immigrazione non è citato, ma la cautela del premier sul reato di ingresso clandestino che preoccupa il Vaticano, si rivela nel passaggio sul rispetto dei «valori di libertà e tolleranza e sacralità della persona» e la rassicurazione al Papa di un «percorso parlamentare» del ddl. A Canale5 Berlusconi ha ribadito «la linea della fermezza», ma anche i dubbi sulla «funzionalità» del reato.
Ben disposto Benedetto XVI, atteggiamento reverenziale da Silvio IV. Il quale maschera il suo spirito settecentesco (quell’«anarchia di valori» criticata dalle gerarchie ecclesiastiche) con la religiosità di chi gli è vicino. O lo era. Come Mamma Rosa: il pontefice ricorda di averle regalato un rosario l’anno scorso durante un’udienza privata. «Aveva una fede straordinaria», racconta il premier, ed era devota ad alcune «suorine» che la volevano incontrare anche quando non stava più bene...
Quaranta minuti di colloquio, poco più della media. Poi il saluto della delegazione di Palazzo Chigi con altri baciamano, («la vedo sempre in televisione», dice il Papa a Bonaiuti) e scambi di omaggi. Da Berlusconi una vistosa croce d’oro con 11 topazi e un diamante naturale fancy brown, simboli di «concordia e temperanza» (fra Stato e Chiesa?). Silvio la illustra con fare da venditore aprendo un foglio di «expertise»: «È un modello unico, l’abbiamo fatto fare apposta per lei... Quando ha un attimo lo legga, ci sono le significanze di ogni pietra». «Lo farò...» risponde il Papa tedesco, che ricambia con una penna-colonna creata per i 500 anni della Basilica Vaticana e una stampa del ‘600.
Col secondo baciamano si chiude l’incontro, poi un colloquio di tre quarti d’ora con il cardinale Tarcisio Bertone, alle 12,40 il corteo riparte. Berlusconi raccomanda ai suoi, come fossero scolaretti: «Adesso dovete lavorare di più, con più passione e più entusiasmo. Il Santo Padre vi ha fatto un grande regalo».

venerdì 6 giugno 2008

il Cavaliere a rapporto da Ratzinger

l’Unità 6.6.08
Oggi l’Udienza con Benedetto XVI
Incensa la Chiesa e frena sulla laicità:
il Cavaliere a rapporto da Ratzinger
di Roberto Monteforte

Vuole essere lui Silvio Berlusconi, l’unico, vero interlocutore politico della Chiesa in Italia. Liberatosi da chi nel centrodestra come il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, poteva ambire ad essere sponda delle sollecitazione vaticane sui «valori non negoziabili», ora che nel suo governo non spiccano interlocutori che possano presentarsi come referenti sicuri per i Sacri Palazzi, è tutta sua la piazza. D’altra parte, l’unica personalità dell’esecutivo su cui la gerarchia vaticana può contare è un suo fedelissimo, quel Gianni Letta, mente politica e gran tessitore di rapporti diplomatici del premier, talmente di casa e stimato Oltretevere da essersi guadagnato l’ambito titolo di «gentiluomo di Sua Santità».
Con l’incontro di oggi Berlusconi sa di giocarsi la carta dello statista, malgrado le intemperanze della maggioranza che lo sorregge. Lo fa partendo dall’apertura di credito già assicuratagli da Benedetto XVI con il pubblico apprezzamento nel suo discorso ai vescovi italiani per quel «clima nuovo» del paese e per quell’assunzione di responsabilità da parte dell’intera classe politica, impegnata a favore del «bene comune» apertasi. È l’effetto dopo-voto osservato con compiacimento dal pontefice. La Chiesa afferma di apprezzare stabilità e governabilità e il premier è pronto ad incassare. Mentre si affinano i temi dell’agenda del faccia a faccia tra il premier e il pontefice, cui hanno lavorato Gianni Letta, l’«uomo ponte» tra le due sponde del Tevere e il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, spiana la strada all’incontro un’inconsueta e ampia intervista concessa da Berlusconi all’Osservatore Romano e a Radio Vaticana.
«La Chiesa è una ricchezza per lo Stato e il dialogo è aperto su ogni argomento» è la premessa impegnativa e suadente del premier che si fa garante ad un tempo delle prerogative e libertà della Chiesa, compreso quello di dire pubblicamente la propria, e della laicità dello Stato. Si ritaglia il ruolo di campione di quella «sana laicità» evocata anche nel recente viaggio negli Usa da papa Ratzinger. «La Chiesa e le sue organizzazioni hanno tutto il diritto di esprimere le proprie valutazioni e lo Stato laico poi esprimerà un suo giudizio e potrà seguire queste valutazioni nella sua azione politica» rassicura. «Con la Chiesa - aggiunge - è possibile ogni dialogo su ogni argomento» dato che, afferma, «la nostra Costituzione su questo punto è molto chiara». «Quindi - prosegue Berlusconi - non ci possono essere preclusioni alla manifestazione di opinioni e principi da parte di alcuno». Rigetta così la possibile accusa di ingerenza lanciata contro una Chiesa che spesso non si limita ad indicare le sue verità, ma fa anche pesare i suoi veti. Per Berlusconi la Chiesa è e continuerà ad essere un interlocutore essenziale, una «ricchezza per lo Stato» puntualizza «per la sua millenaria esperienza, per il suo contatto con tutte le fasce sociali, a cominciare dalle fasce sociali più deboli». Quindi detta la sua ricetta per un Stato che voglia restare laico: «Deve fuggire dal pericolo ideologico di diventare settario o addirittura totalitario». Perciò - spiega «il dialogo che precede il rapporto tra Stato e Chiesa è un dialogo assolutamente positivo che risiede nella natura stessa della società e dimostra la libertà e la pluralità della società». Conclude che «sarebbe una perdita significativa di libertà per lo Stato escludere e soffocare manifestazione e convinzioni della Chiesa». Nel suo ragionare il premier spazia da problemi come l’emergenza alimentare e le contraddizioni della globalizzazione - cui la Santa Sede è sensibilissima - al centro della recente assemblea della Fao, al ruolo della Ue e dell’Europa di fronte alle emergenze sociali, compresa la questione giovanile, rassicura la Chiesa che chiede valori di riferimento da offrire per contrastare il pericolo dell’egoismo sociale. Indica le iniziative che il governo assumerà a favore della famiglia. Rassicura sul nuovo clima politico tra maggioranza, governo e opposizione. Offre aperture e disponibilità al suo illustre interlocutore che lo riceverà questa mattina in udienza. Ed anche possibili risposte ai temi che molto probabilmente Benedetto XVI gli sottoporrà e poi affronterà con il cardinale Bertone. Troverà un interlocutore attento e disponibile. È indicativa quell'inusuale espressione di «gioia» usata dal Papa nel suo discorso ai vescovi, per sottolineare il nuovo clima registratosi con il dopo elezioni. Come il costante richiamo del pontefice al «bene comune», alla difesa della vita e contro l’aborto, con l’esplicito invito a rivedere la legge 194, quindi le esigenze delle famiglie, istituto da rafforzare e da proteggere mettendolo al riparo da possibili equiparazioni con le unioni civili e introducendo il «quoziente» familiare, e ancora il nodo del lavoro e della condizione giovanile, l’emergenza educativa che per Benedetto XVI non vuole dire soltanto valori da trasmettere, ma anche, più prosaicamente, finanziamenti alle scuole cattoliche . Vi sono i temi di politica internazionale, vi è anche quello della sicurezza e dell’immigrazione da coniugare con i diritti della persona. Siamo sul «non negoziabile» per la Chiesa. E anche per la Lega.

giovedì 5 giugno 2008

Pannella: questo Vaticano non ha senso della misura

Pannella: questo Vaticano non ha senso della misura

La Repubblica del 30 maggio 2008, pag. 11

di Goffredo De Marchis

Onorevole Pannella, il Papa s’interessa, e lo benedice, anche al dialogo tra gli schieramenti. Non è il sintomo di un’ingerenza della Chiesa ormai a tutto campo?

«Direi che questo semmai è un sintomo minimo, un semplice auspicio quasi di senso comune, più di che di buon senso. E dargli valore significa distrarsi dall’essenziale. La notizia è che il disco pontificio continua a ripetere a volume sempre più alto la solita musica. Io sommessamente mormoro il "no pasaran" e il"nonpraevalebunt"».



All’intervento di sostegno alle scuole cattoliche invocato da Ratzinger, il Partito democratico deve opporsi o cercare anche in questo caso un confronto con i cattolici. con la Chiesa?

«C’è davvero un problema culturale molto preciso: accettare lo stesso principio del dialogo con i cattolici in quanto tali significa uscir fuori dalla storia civile e religiosa italiana ed europea per rinchiudersi nel ghetto di una cultura clericale da una parte e assolutamente a-liberale, a-laica dall’altra. Il cattolico in quanto tale non va individuato politicamente ma per il suo specifico, la sua fede, la sua libertà di coscienza e di religione. Non come membro di una comunità politica che teorizza e pratica una visione integralista della società e dello Stato».



Ma il Pd cerca disperatamente la sintesi tra laici e cattolici come suo elemento costitutivo e identitario.

«La sintesi professata e ricercata fra cattolici e democratici e laici è una impostazione di per sé destinata a fallire. Il problema non è quello della sintesi fra gli opposti ma, politicamente, scegliere tra questi opposti. Come fra dittatura e democrazia, fra libertà di coscienza e il suo contrario, cioè la pretesa assolutista e anti-relativista. Questa ricerca di sintesi quindi è fra due referenti sbagliati ed evocativi di un modo di intendere valori laici e valori religiosi estranei alla storia della democrazia in tutto il mondo».



E’ giusto aspettarsi invasioni vaticane meno di buon senso e più pericolose in futuro?

«Vede, quando il messaggio televisivo è totalmente occupato da un potere che viene riconosciuto come una vera e propria religione di Stato non c’è che da prendere atto che ogni giorno lo stesso potere vaticano perde completamente il senso della misura e vive una crisi di identità che lo trasporta indietro di secoli e manifesta una situazione italiana nella quale confluiscono affluenti della storia di un Paese che ha dato al mondo nientedimeno che il fascismo e il più forte partito comunista in un paese democratico durante il periodo stalinista. Quindi fascismo, comunismo e la controriforma ingrossano il fiume in piena di un’Italia in cui non c’è diritto e non c’è democrazia».



Ma i laici sembrano nascondersi, sbandano, non si fanno sentire.

«Stiamo raccogliendo il frutto di due decenni di propaganda massacrante di stampo antiliberale. Voglio fare l’esempio non solo dei telegiornali e del loro assoggettamento al potere vaticano, ma anche della fiction televisiva. Negli ultimi due-tre anni sono passati soprattutto personaggi legati alla Chiesa, preti e "santi". Penso all’ultimo don Zeno, a Padre Pio, a tanti altri. Non è facile recuperare terreno rispetto a questo retaggio».

Bonino: "Il Papa? E' patetico"

Bonino: "Il Papa? E' patetico"
Il Giornale del 3 giugno 2008, pag. 8

Il Papa parla bene dell’Italia e del suo governo? «Patetico» sentenzia Emma Bonino.
Parole dure da parte della radicale, da sempre in polemica con la Chiesa e con le sue gerarchie. Le sue critiche però di solito riguardano questioni etiche, diritti individuali e laicità delle istituzioni. Questa volta invece la condanna della Bonino suona del tutto personalistica e piuttosto gratuita.
L’ex ministro per il Commercio estero fa riferimento a un intervento del Pontefice pronunciato pochi giorni addietro, davanti alla Conferenza Episcopale. «Quando il Papa ha detto: ho il cuore pieno di gioia per il clima politico in Italia e poi subito dopo ha aggiunto che sarebbe più contento se si finanziassero le scuole private cattoliche, e gli ospedali cattolici. Non so trovare un altro aggettivo: l’ho trovato patetico», è la dichiarazione che la Borino rilascia ai microfoni di Radio Radicale. Non paga di aver definito il Santo Padre «patetico» aggiunge: «Ho trovato una diminutio nel fatto che un grande leader religioso a vocazione mondiale nella riunione della Cei si dà come orizzonte l’Italia e questo passaggio della cronaca politica italiana». Poi, come se qualcuno potesse avere dubbi, precisa di «non essere cattolica» per questo la cosa la «infastidisce e basta» mentre se fosse cattolica allora sì che sarebbe «particolarmente irritata». Ma che ne sa la Bonino di che cosa irrita i cattolici? «Il leader religioso con un orizzonte globale sulla parola divina si pone in realtà come orizzonte (ben che vada) l’Italia, - osserva la radicale - anzi Roma e anzi la contingenza politica».
Dunque patetico il Papa e patetico pure chi lo apprezza, sempre secondo la Bonino che definisce «altrettanto patetici gli osanna di quasi tutto lo schieramento politico italiano». Talmente patetica la politica italiana da indurre la radicale a ricordare con nostalgia «gli anni vissuti nel mondo arabo, dove ci sono regimi teocratici, ma dove questa ingerenza così quotidiana, televisiva (ad ottobre avremo la Bibbia letta in diretta dal Papa), pur guardando spesso Al Jazeera o Al Manar, questa presenza così pervasiva non l’ho trovata. Mi ha fatto davvero impressione. Si va ben al di là dell’ingerenza, abbiamo un governo, poi un governo ombra e poi c’è un altro governo ombra ben più potente». Insomma meglio l’Iran di Ahamadinejad della democrazia italiana. Commenti che suscitano l’indignazione del professor Rocco Buttiglione, Udc. «E' vergognoso l’odio anticristiano di Emma Borino. Paragonare il Papa a regimi islamici nei quali i cristiani sono perseguitati e talora messi a morte è possibile solo per una mente in cui l’ideologia viene a sopraffare ogni minima misura di buonsenso dice Buttiglione -. La Chiesa non opprime nessuno. La Chiesa non interferisce, la Chiesa semplicemente parla a nome di quelli che condividono il suo pensiero, espone ragioni di cui tutti sono liberi di tener conto o non tener conto».

Bonino sul Papa: parole patetiche davanti ai vescovi

Bonino sul Papa: parole patetiche davanti ai vescovi

Corriere della Sera del 3 giugno 2008, pag. 6

Emma Bonino definisce «patetico» il discorso del Papa davanti alla Cei e le sue parole provocano una dura reazione da parte del mondo cattolico che le definisce «vergognose» (Rocco Buttiglione) e «un attacco patetico» (Laici di Don Orione).
Il caso scoppia quando il vicepresidente del Senato, interrogata da Radio radicale, critica le affermazioni di Benedetto XVI. «Non avevo voglia - sostiene - di rimettermi nella coazione a ripetere per cui il Papa dice e un altro risponde, ma rispetto all’intervento di pochi giorni fa, quando il Papa ha detto "ho il cuore pieno di gioia per il clima politico in Italia" e poi subito dopo ha detto che sarebbe più contento se si finanziassero le scuole private cattoliche, e gli ospedali cattolici, non so trovare un altro aggettivo, l’ho trovato patetico».
L’esponente radicale definisce poi «una diminutio che un grande leader religioso a vocazione mondiale nella riunione della Cei si dà come orizzonte l’Italia e questo passaggio della cronaca politica italiana». La considerazione finale di Bonino è «si va ben al di là dell’ingerenza, abbiamo un governo, poi un governo ombra e poi c’è un altro governo ombra ben più potente». E sono del tutto «patetici gli osanna di quasi tutto lo schieramento politico».
Il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione coglie in questo intervento «l’odio anticristiano di Emma Bonino. La Chiesa non interferisce, la Chiesa semplicemente parla a nome di quelli che condividono il suo pensiero, espone ragioni di cui tutti sono liberi di tenere conto o non tenere conto, ragioni che possono essere confutate in un dialogo razionale». E di «attacco patetico al Papa» parla il movimento laicale di Don Orione. «L’intenzione vera - avvertono quelli del movimento - è di mettere a tacere il Papa e la Chiesa». Sostenere che in Italia si starebbe costruendo «un modello teocratico è assurdo soprattutto perché in questo Paese è stato impedito al Pontefice di parlare all’Università di Roma e dichiararsi cattolico sembra ormai un valore aggiunto».

Pd, big a conclave alla Gregoriana sul voto cattolico

Pd, big a conclave alla Gregoriana sul voto cattolico

La Repubblica del 4 giugno 2008, pag. 19

Il giorno è quello giusto. Alla vigilia della visita di Berlusconi dal Papa, i big del Pd si vedono in conclave per parlare di questione cattolica. L’appuntamento è domani alla Pontificia Università Gregoriana, dove ha insegnato Benedetto XVI, in una saletta messa a disposizione dal rettore. Seminario a porte chiuse, organizzato dai leader dell’ex Ppi Dario Franceschini, numero due del partito, e dal "ruiniano" Beppe Fioroni. Inviti spediti una settimana fa che dicono più o meno: «caro Walter», «caro Massimo», «caro Pierluigi... ti invitiamo a una riflessione sul voto cattolico».


D’Alema, Veltroni, Bersani, Fassino e gli altri, in tutto una trentina, hanno risposto che faranno di tutto per esserci. Del resto l’incontro cade a proposito. Se il premier vuole accreditarsi nell’udienza pontificia come interlocutore «fidato», portando in dono la promessa di politiche pro-famiglia e l’introduzione del quoziente familiare, il Pd batte un colpo.
Francesco Saverio Garofani, presidente dell’associazione "Quarta fase", che ha diramato gli inviti - da Antonello Soro a Arturo Parisi, Rosy Bindi, Enrico Letta, Anna Finocchiaro, Marco Follini, Emanuela Baio, Paola Binetti, Luigi Bobba, Mimmo Lucà, Pierluigi Castagnetti parla di una riflessione «ampia». Terrà conto delle ultime uscite che hanno creato tensione nel partito: l’affondo di Emma Bonino che ha definito «patetico» il discorso del Papa, e l’intervento di D’Alema sulla Chiesa, latentazione demoniaca e il patto di potere con il centrodestra. Ieri il Sir, l’agenzia dei settimanali cattolici, ha risposto a D’Alema: «Basta con le vecchie contrapposizioni gramsciane tra Chiesa e laicità, perché sfide nuove richiedono nuove categorie di pensiero».


Insomma, la questione cattolica di gramsciana memoria è da archiviare. Domani, tra gli invitati ci sono anche il fondatore della comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, Andrea Oliverio, presidente delle Acli e ad introdurre le relazioni di Franco Garelli e Paolo Natale. Per i cattolici del centrosinistra del resto, è tempo di controffensiva. Oggi il cristiano-sociale Mimmo Lucà ha organizzato un incontro; domani il conclave dei big dei Democratici; a fine giugno l’appuntamento nel monastero di Bose voluto da Rosy Bindi. Discussioni tutte interne al partito? Garofani assicura che «le porteremo nei circoli, nella società, anche nelle parrocchie se ci invitano».

Bodei: il Pd riparta da laicità e diritti

l’Unità 25.5.08
Bodei: il Pd riparta da laicità e diritti
di Bruno Gravagnuolo

L’accusa di relativismo non regge, perché la democrazia non è relativa e rende compatibili i valori in campo

PERCHÉ L’ITALIA VA A DESTRA Parla lo storico della filosofia impegnato in questi giorni al Seminario della «Fondazione Italiani Europei» su «Religione e democrazia». «L’irruzione delle Chiese in politica? Nasce dalle falle della politica laica»

«L’irruzione della religione in politica nasce dalle debolezze della politica democratica, dopo il crollo delle ideologie e delle filosofie del progresso. Ma è tempo di ricominciare a elaborare un’identità laica. A fondamento della democrazia e del nesso religione/politica». Giudizio problematico nel metodo, ma netto nella sostanza quello di Remo Bodei

Il filosofo migrato negli Usa all’Ucla di Los Angeles, studioso dei Destini personali (Feltrinelli), del soggetto e delle «forme di coscienza» punta al cuore di una questione politica centrale: l’identità del Pd dopo la sconfitta elettorale. In sintesi per Bodei - in questi giorni a Marina di Camerota al Seminario della Fondazione ItalianiEuropei che si chiude oggi con Todorov, Larmore e Massimo D’Alema - ci vuole un «lavoro gramsciano di lunga durata». Per ridefinire laicamente il nesso «Religione - democrazia». E dare smalto e baricentro al Partito democratico. Contro il populismo montante e possibili stravolgimenti materiali e formali della Costituzione. E a conti fatti quella di Bodei è anche una risposta alla domanda: perché l’Italia va a destra?
Bodei, da sinistra a destra in molti affermano che la politica laica è carente di «fondazione». Di qui il bisogno di una legittimazione religiosa. Davvero le cose stanno così?
«No, la politica non ha bisogno di fondamenti religiosi. Ma è certo carente. Perché le basi sulle quali si fondava si stanno erodendo. L’età moderna poggiava sul primato della coscienza critica individuale e sul progetto di controllare la storia. Le due dimensioni sono entrate in crisi con il crollo dei totalitarismi e l’ottundimento dell’autonomia intellettuale del singolo. Lo spessore di senso della politica si assottiglia e nel varco passa il protagonismo delle Chiese».
Ne deriva la necessità di rilanciare la politica laica, magari su basi più ampie e inclusive?
«Sì, recuperando a pieno la dimensione civile democratica. Il diritto della religione a intervenire nello spazio pubblico non è in discussione. Né lo è mai stato nell’Italia democratica. Il punto è l’invadenza di quello spazio, decisivo per consentire il confronto fra le molteplici posizioni, religiose e non. Per cui la religione “stampella” diviene prescrittiva e fondante della legislazione civile. Aggiungo che l’accusa di relativismo, a giustificazione di ciò, non regge. Poiché la democrazia si sottrae a quel relativismo, con il criterio della compatibilità di tutti i valori. Ne consegue che l’invadenza religiosa, con la sua pretesa di monopolio, spezza il principio di eguaglianza a garanzia del pari diritto di tutti i valori. Le conseguenze sono letali, se si pensa che la democrazia moderna nasce proprio dal superamento delle guerre di religione, con il bagno di sangue che le accompagnò. Insomma, lo spazio pubblico democratico è irrinuniabile. E non ha mai represso la religione. Dire che essa è oggi ristretta ad una dimensione privata, del silenzio, è falso».
Benedetto XVI afferma che negli Usa lo spazio pubblico è fatto a misura delle confessioni religiose e solo in tal senso è «plurale».
«Non è del tutto così, e in ogni caso bisogna storicizzare. Gli Usa nascono con l’arrivo dei Padri pellegrini che hanno sempre rifiutato l’interferenza religiosa dello stato sulla loro religione e le altre sette. In Europa è stato il contrario: lo stato si è voluto premunire dalla religione, arginandola con Cavour».
Europa laica, e Usa terra di pluralismi fondamentalisti?
«Non necessariamente, e poi il termine “fondamentalisti” nasce proprio negli Usa. L’America è certo un luogo in cui la religione ha intriso la politica fin dall’inizio. Basta vedere i richiami religiosi presenti in Bush Jr e in Obama. In questo senso gli Usa sono meno laici non dell’Europa, bensì della Turchia, dove bene o male Ataturk distinse con forza religione e stato. Certo, le regole laiche ci sono eccome in America, ma nessun politico europeo direbbe che quando è triste “piange sulla spalla di Dio” come Bush. O che lo “spirito divino” lo ha spinto a candidarsi, come Obama. Possono sembrare cose innocue, ma non dimentichiamo che quello Usa è anche un Dio degli eserciti, e che la democrazia lì ha una dimensione imperiale, espansiva, pur essendo mite su tante cose, all’interno».
Jefferson parlava di muro tra religione e stato, ma i vari stati decidono se il darwinismo è lecito a scuola. È così?
«Certo, in Alabama Darwin è fuorilegge. Il che non vuol dire che l’America sia illiberale. Sarà banale ripeterlo: gli Usa sono complicatissimi, conflittuali. Ma è il lievito della libertà a muovere questo paese. Come diceva già Tocqueville, stupito dinanzi alla prima democrazia moderna».
Ma quali sono i limiti del «ruolo pubblico della religione», per usare il «lessico» del Pd?
«Il limite è la non subalternità della politica dinanzi alla religione e ai suoi dettati. La politica deve rivendicare a pieno la sua autonomia. Sapendo però che la religione è entrata nelle linee di frattura lasciate aperte dalla politica laica. Confine dunque precario, e problema non di immediata soluzione: ci vorrà tempo. Perché certe svolte culturali hanno lasciato il segno. E non siamo più in grado di garantire alle grandi masse controllo degli eventi e progresso sicuro. La salvaguardia dalle grandi paure, e dalla desertificazione dei significati etici e politici, svanito il sogno di una società senza classi. Perciò c’è un lavoro enorme da fare: riformulare la libertà, l’emancipazione e la sicurezza in senso ampio. In un mondo globale e senza garanzie. Ma al momento, se la religione assume un nuovo ruolo, la colpa è proprio della politica secolare».
Dobbiamo dunque accettare l’irruzione della religione come una sfida in positivo?
«Sì, come sfida a capire le paure e le aspettative nel mondo mutato. Che cosa comporta la perdita del futuro nell’immaginario? E perché in tutto questo esplodono le radici religiose? Ciò che però è profondamente sbagliato è l’attegiamento “mimetico” a sinistra. Si è pensato di diventare più moderni appiattendosi sulle ragioni degli altri. Errore letale, perché come insegna anche la pubblicità, la copia di un prodotto originale è sempre perdente».
Non sarà il caso, pensando al Pd, di ricostruire una comunità politica a identità più definita e salda e meno ibridata?
«Certamente. Ma dobbiamo renderci conto che sarà una lunga guerra di posizione, per usare un concetto gramsciano. Non ci si ridefinisce dall’oggi al domani. E uno dei temi centrali mi pare quello dell’eguaglianza, da rilanciare e ripensare all’altezza dei diritti. Tema oltretutto di origini cristiane... Prenda la questione dei clandestini. Lì la Chiesa è molto più accogliente, mentre la sinistra a volte è incerta. Eppure accade qualcosa di grave: una condizione debole, diviene reato. È il frutto di una lunga caduta, in cui la fine della “storia lineare” ha trascinato con sé anche l’eguaglianza. Senza dubbio questo valore non va propugnato in chiave barricadera, bensì pragmatica. Il laicismo infatti non esclude che si possa apprendere anche dalla religione. E tuttavia declina l’eguaglianza in chiave di libertà di tutti, e non dogmatica. Oggi ci vorrebbe un disarmo bilaterale tra laici e credenti. Una tregua, in cui ciascuno accetti di ripensarsi, prima di potere ridelineare confini e differenze»
Restiamo al Pd. Le pare sufficientemente attrezzato per questo lavoro di lunga lena a caccia di un baricentro culturale?
«Vista dagli Usa, dove mi trovavo in questi mesi, la scelta di correre da soli, mi è sembrata un modo di non restare sepolti sotto le macerie del governo Prodi. Ciò detto, la visione dei blocchi contrapposti e dell’alternanza, spinge di fatto a condensare l’eterogeneità. Soltanto che a destra c’è una compattezza identitaria maggiore, sulla sicurezza e sugli interessi proprietari. Nel nostro campo è più difficile. E coesistono nel Pd “teodem” e il loro contrario. Essenziale comunque è mantenere il principio della laicità. Per far convivere i diversi, rilanciando l’agenda democratica. Contro il populismo ad esempio, e contro il tentativo di mutare o stravolgere la costituzione materiale e formale della Repubblica. Magari finendo con il legittimare e premiare l’avversario con nuove intese bicamerali».

Massimo D’Alema: «Rischi per lo Stato laico da un patto tra Chiesa e destra»

l’Unità 26.5.08
Massimo D’Alema: «Rischi per lo Stato laico da un patto tra Chiesa e destra»
di Andrea Carugati

In Italia c’è un rischio per la laicità dello Stato. Che si concretizzerà se la Chiesa «cederà alla tentazione demoniaca del potere, che già ha prodotto errori nella sua storia». Se cioè ci sarà un «patto di potenza» tra la Chiesa e la destra, un patto cementato da leggi che traducano la morale cattolica in norme «imposte a tutti». Massimo D’Alema lancia l’allarme sulla laicità durante la sua relazione conclusiva del seminario su “religione e democrazia”, organizzato dalla Fondazione Italianieuropei, che si è chiuso ieri a Marina di Camerota. Lo fa senza alcuna vis polemica o laicista, al termine di tre giorni di riflessioni alte, con intellettuali di fama internazionale come Remo Bodei e Tzvetan Todorov.
Secondo D’Alema questa alleanza tra Chiesa e destra metterebbe in pericolo il «carattere pluralistico, democratico e liberale dello Stato». Di qui il monito alle gerarchie cattoliche, affinché «non indirizzino il proprio peso politico da una parte, ottenendo in cambio la tutela di principi e valori che diventano leggi valide per tutti». Anche per chi cattolico non è, e su aborto e fecondazione, ad esempio, ha convinzioni morali diverse.
L’ex ministro degli Esteri inserisce questo concetto in una lunga relazione sulla crisi dell’Occidente, dopo la sconfitta delle ideologie di mercato che hanno dato spinta alla globalizzazione: crisi in cui la religione ha assunto un ruolo «di supplenza», di «identità e protezione» per società sempre più «smarrite e incerte sul proprio futuro». In questo contesto «la destra ha preso a prestito la religione come elemento coesivo nel conflitto dell’Occidente con altre civiltà, come è avvenuto, con le dovute differenze, nel mondo islamico». La destra lo ha fatto perché «è stata migliore interprete di ciò che si muove nel fondo delle nostre società».
E tuttavia questo esito, l’alleanza tra chiesa e destra, è tutt’altro che scontato: anzi, secondo D’Alema, il ritorno della religione in primo piano nello spazio pubblico potrebbe avere effetti di tutt’altro segno se la Chiesa non cederà alla tentazione del fondamentalismo: «Il sentimento religioso non solo non è incompatibile con la laicità, ma può ridare forza e prospettiva alla politica», spiega. Può essere uno di quegli «affluenti» di cui «la politica ha bisogno per tornare a suscitare passioni». Ma perché questo avvenga è necessario che all’unità ecclesiale si affianchi un forte «pluralismo delle scelte sociali e politiche». Che emergano le «linee di frattura dentro il movimento cattolico». Ed è necessario che la chiesa recuperi la sua «carica di universalità», che «non si confini in una alleanza con l’Occidente». D’Alema si richiama al Concilio, alla «Gaudium et spes» cita l’intervento di sabato qui al seminario di monsignor Piero Coda, presidente dell’Associazione teologica italiana, che aveva ricordato come «neanche un Papa possa mettere in discussione il Concilio Vaticano II, solo un nuovo Concilio può farlo». E aveva invitato a «non identificare le posizioni della chiesa con quelle della gerarchia», a guardare «anche a cosa matura e lievita nella base cattolica», nell’associazionismo. D’Alema accoglie questa prospettiva, attento a cosa si muove dentro la Chiesa e invita a più riprese a un «dialogo fecondo» tra laici e cattolici.
C'è spazio anche per un supplemento di riflessione sulla sconfitta elettorale. D'Alema cita l'analisi di Mauro Calise e dice: «Non abbiamo tenuto conto di queste sconvolgenti novità,ci siamo rivolti a un voto di opinione razionale, senza capire che stava tornando prepotentemente un voto identitario, mosso soprattutto da passioni e paure, anche dalla forza di argomenti irrazionali. La destra ha intercettato questo spostamento di pezzi di comunità». Secondo D'Alema, però è troppo semplicistico prendersela con «l’ignavia dei dirigenti», che accusarli di non aver fatto sentire abbastanza i valori del centrosinistra. «Io temo che le tante nostre buone ragioni, dalla pace, alla tolleranza, ai diritti, non riescano a costruire consenso per l’impotenza della politica, per l’indebolimento degli strumenti in grado di agire sulla realtà,a partire dallo stato nazionale». Conclude D’Alema: «Abbiamo passato tanto tempo a decostruire, dopo che la politica aveva suscitato aspettative ipertrofiche: ora è il momento di ricostruire, un riformismo senza visione del futuro è solo ingegneria sociale che non regge la sfida con fondamentalismi». «Ma è un programma di lungo respiro...». Intanto il lavoro della Fondazione va avanti: «Non voglio fare un monastero benedettino», sorride D’Alema. «Né fare dibattiti di sezione. Vogliamo rimettere in comunicazione politica e cultura, in un progetto collegato al Pd ma non partitico, capace di dialogare anche con altri».

La cultura secondo il sindaco? Più processioni e feste patronali

l’Unità Roma 27.5.08
La cultura secondo il sindaco? Più processioni e feste patronali
di Luca Del Fra

Le linee programmatiche della giunta Alemanno per le attività culturali, tra dichiarazioni contro l’effimero, feste popolari di piazza, e repertorio sui grandi palcoscenici. Prima gatta da pelare per l’assessore Umberto Croppi: l’Estate Romana rischia la paralisi, tra immobilisnmo, modifiche al bando e ritardi dovuti al cambio di giunta. Incombe su tutto un doppio spoil system.
In grave ritardo l’organizzazione dell’Estate Romana
Si pensa alla pubblicità tra i monumenti per trovare soldi

«Un profilo caratterizzante della politica culturale sarà la riscoperta della tradizione popolare, che si alimenta anche dalla celebrazione di eventi religiosi: feste e spettacoli
di piazza sono il distillato millenario di tradizioni antichissime il cui significato sarà oggetto di nuova valorizzazione».
Linee programmatiche del sindaco di Roma Giovanni Alemanno

FESTE patronali e turismo, molto repertorio sui maggiori palcoscenici e interventi economici dei privati, utilizzazione degli scenari monumentali per le attività di spettacolo ma anche per la pubblicità al fine di garantire le risorse: ecco alcune delle linee guida sulla
cultura contenute nel documento programmatico che il sindaco Alemanno avrebbe dovuto presentare ieri durante il primo burrascoso consiglio comunale della sua amministrazione.
L’estate Romana rientra «tra le manifestazioni tradizionali», e questo malgrado lo stesso Alemanno abbia ribadito anche ieri durante il consiglio che bisogna «archiviare l’effimero» e «dire basta agli spot». Tuttavia sulla manifestazione inventata negli anni ’80 dall’ideologo dell’effimero Renato Nicolini, comincia a pesare un certo allarme per i ritardi nelle graduatorie e nella delibera dei finanziamenti. La rassegna tradizionalmente inizia il primo giugno, ma quest’anno la commissione che valuta le domande di finanziamento darà la sua graduatoria molto tardi, il 30 maggio. Se fosse un omaggio all’insediamento ufficiale del nuovo consiglio comunale, avvenuto ieri, sarebbe maldestro considerando che la commissione è tecnica e non politica. Uscita la graduatoria, che non è vincolante, toccherà al nuovo assessore alla cultura, Umberto Croppi, decidere i singoli finanziamenti. A spiazzare gli operatori c’è stata anche la decisione di ridurre in corso d’opera il bando da due anni a uno: comprensibile che la nuova amministrazione voglia dare un suo taglio alla manifestazione già a partire dall’anno prossimo, indubbio che nelle domande la previsione era di ammortizzare alcune spese su un periodo lungo il doppio.
Resta inteso che ogni volta che ci sono le elezioni comunali in primavera l’Estate Romana ne soffra, ma in realtà si respira una aria di surreale immobilismo sui temi culturali e sulla gestione delle grandi istituzioni, con il rischio di ritardare la programmazione, nella capitale sempre con il fiato un po’ corto. Resta infatti misterioso come si possa sfuggire all’effimero valorizzando «la tradizione popolare -attraverso- celebrazione di eventi religiosi: feste e spettacoli di piazza...», come si legge nelle linee programmatiche di Alemanno, dove emerge inoltre la volontà di orientare il Teatro di Roma e l’Opera di Roma verso il «repertorio». Idea quest’ultima, che lascia qualche perplessità considerando quanto le due istituzioni già siano tradizionali. Per la programmazione non sempre felice delle passate stagioni, l’Opera soffre una notevole disaffezione del pubblico nelle sue sedi istituzionali -Teatri Costanzi e Nazionale-, ma le linee programmatiche prevedono solo «l’incremento della fruizione della stagione estiva a Caracalla», anche in questo caso eventi dal carattere squisitamente intrattenitivo.
A quanto sembra nel mese di giugno si assisterà all’avvicendamento alla presidenza di Cinema per Roma, fondazione che promuove la Festa del Cinema: si fa il nome di Andrea Mondello al posto del fondatore Goffredo Bettini. Sarebbe il primo atto di spoil system culturale dopo il cambio di maggioranza a Roma. Tuttavia un altro spoil system rischia di avvenire fuori dallo sguardo dei media: potrebbe investire quanti prestano la loro opera in associazioni, servizi, cooperative dediti alle attività culturali. È un mondo fatto di contratti a termine, co co pro, fatture e ricevute, privo di qualsiasi garanzia e che rischia un forte contraccolpo da un clima di incertezza che potrebbe portare alla paralisi di un settore complesso e delicato come quello della cultura.

Il patto Chiesa-destra sui temi etici? C’è stato, ora il Pdl dimostri di non essere prigioniero

l’Unità 27.5.08
Vittoria Franco. La senatrice del Pd sul rischio adombrato da D’Alema: ma sulla 194 il dialogo tra Pd e maggioranza è possibile
Il patto Chiesa-destra sui temi etici? C’è stato, ora il Pdl dimostri di non essere prigioniero
di Maria Zegarelli

Dibattito infuocato dentro e fuori il Partito democratico dopo la relazione finale della Fondazione Italianieuropei.
Senatrice Vittoria Franco, lei lo vede o no questo rischio di patto tra Chiesa e destra di cui parla D’Alema?
«C’è stato in passato, come documenta la storia. Pensiamo all’influenza che hanno avuto i teocon dopo l’elezione di Bush negli Usa e in Italia: oggi, a parte Ferrara, non ce ne sono tracce. È vero che Famiglia Cristiana dicendo, sulla 194, al centrodestra “visto che avete la maggioranza potete cambiarla”, denota un sintomo del rischio di cui parla D’Alema, ma le reazioni della politica a quelle affermazioni sono state tutte negative. Credo che la cultura dell’autonomia della politica, di cui noi Ds prima e Pd ora, siamo stati paladini, stia facendo passi avanti e stia contaminando anche la destra».
Il fondamentalismo non è uno dei possibili rischi nel dibattito sui temi definiti eticamente sensibili e quindi sulle relative leggi che lo Stato prima o poi dovrà fare?
«Vedo un rischio maggiore, oggi, per quanto riguarda gli effetti della cultura di destra, più sui temi che riguardano la sicurezza e l’immigrazione che non su quelli eticamente sensibili. Non penso sia possibile, purtroppo, varare le leggi che stanno a cuore a noi dell’opposizione, come il miglioramento della legge 40, ma credo che ci sia maggiore possibilità di dialogo».
Ma D’Alema cita come esempi proprio le leggi sulla fecondazione assistita e l’aborto...
«Il patto c’è stato nel passato, quando è stata approvata la legge 40. All’epoca quella legge è stato il valore di scambio con la Chiesa rispetto ad altri argomenti. Giovanni Paolo II venne in Parlamento a chiedere tre cose: indulto, pace e una legge di tutela della vita. Di queste tre cose la destra gli ha dato la legge 40. Oggi vedo più una tentazione di immobilismo che non di aggravamento ulteriore. Quindi noi dobbiamo fare breccia su questo immobilismo».
Mi fa un esempio di dialogo con il centrodestra sui temi di cui stiamo parlando?
«La legge 194 è un esempio. Persino la sottosegretaria Roccella ha detto che non si cambia, semmai si applica fino in fondo».
Bagnasco dice: «Esprimere la propria fede non minaccia lo Stato». Se lo Stato è autonomo. Secondo lei lo è?
«Lo Stato è minacciato nella sua laicità quando ci sono ingerenze forti. Non dobbiamo dimenticare che la presidenza della Cei di Ruini ha significato un tentativo, a volte riuscito, di minare la laicità dello Stato e di sostituirsi allo Stato. Durante il referendum sulla legge 40 c’era un vero e proprio quartier generale alla Cei».
Bagnasco interviene anche sulle linea guida della Legge 40...
«Lui può dire quello che pensa, è giusto che lo faccia. Ma la politica non deve farsi influenzare. Mi preoccupa più quello che dice Giovanardi che vuole abolire quelle linee guida».
Non crede che siano fortemente legate le dichiarazioni Oltretevere con la mancanza di leggi sulle coppie di fatto e la presenza di altre come la legge 40?
«Noi abbiamo un unico modo di reagire a tutto questo: imponendoci un confronto e un dialogo con lo schieramento politico a noi opposto per arrivare ad ottenere leggi laiche».
Il Pd è così forte o anche al suo interno ha lacerazioni su questi temi?
«Il Pd è un partito plurale, che deve tener conto di diverse sensibilità, ma è un partito laico, come si vede anche dalla mozione sulla legge 194, firmata da tutte le senatrici, compresa la Binetti, durante la scorsa legislatura. Ma il Pd deve essere in grado di creare una cultura condivisa e porre più attenzione alla cultura politica, quindi anche sul piano dei valori, delle idee e della laicità».