giovedì 5 giugno 2008

Difendo la laicità dello Stato

Corriere della Sera 28.5.08
Difendo la laicità dello Stato
di Massimo D’Alema

Caro direttore, non può che essere motivo di soddisfazione per noi organizzatori, con la Fondazione Italianieuropei, del corso estivo di formazione dedicato a «Religione e democrazia», che i temi sollevati nella tre-giorni cilentana abbiano suscitato interesse, dibattito e prese di posizione nel mondo politico e intellettuale.
Desta tuttavia un qualche stupore la perentorietà dei commenti da parte di chi non ha potuto valutare che spezzoni, frammenti o frasi separate da ogni contesto senza potere più approfonditamente valutare un confronto che ha impegnato un gruppo di intellettuali tra i più prestigiosi, italiani e stranieri.
Non un raduno anticlericale, dunque, o una riunione di nostalgici, ma un confronto che ha coinvolto, di fronte a una platea attenta di giovani, personalità di diversa cultura, molti cattolici tra i quali il presidente dell'Associazione teologica italiana.
Vorrei ricordare che, nel dibattito contemporaneo, vengono proprio dall'interno del mondo cattolico le espressioni più inquiete e preoccupate per una possibile commistione tra fede e politica, tra religione e potere.
Ha scritto Gustavo Zagrebelsky nel suo «Contro l'etica della verità»: «La Chiesa cattolica è direttamente coinvolta. Le si offre l'occasione di una rivincita con un aspetto costitutivo del "mondo moderno", la democrazia: una rivincita che una parte di essa forse ha sempre desiderato e aspettato. I nostri procacciatori di identità sono i nuovi teologi politici. Essi, in mancanza di chiese d'altro genere — ideologie forti e globali, filosofie della storia, promesse messianiche —, si rivolgono a quella che pare loro l'odierna depositaria di valori identitari utili alla loro battaglia, la Chiesa cattolica, e le offrono un'alleanza. È la grande tentazione del nostro tempo, una delle tre tentazioni sataniche di Gesù di Nazareth nel deserto, la tentazione del potere».
Nella stessa lezione di padre Coda vi è stata una forte riproposizione di una visione post conciliare dell'impegno pubblico dei cattolici, «sale e lievito» all'interno di una società pluralistica, in contrapposizione a una ben presente tentazione egemonica.
Questo nodo del rapporto tra religione e potere non è certo un tema nuovo. Ha assunto una rinnovata centralità nel confronto culturale e politico proprio di questo tempo a seguito della crisi delle società occidentali di fronte ai mutamenti rapidi e sconvolgenti e alle drammatiche sfide legate alla globalizzazione.
C'è una nuova destra politica e intellettuale che si volge ai valori religiosi della tradizione giudaico-cristiana come condizione perché l'Occidente ritrovi l'orgoglio di una propria identità nella sfida o persino nel conflitto con altre civiltà, con altri mondi. Vi sono molte testimonianze di questa sovrapposizione crescente fra discorso politico e valori religiosi. Tzvetan Todorov ci ha offerto una acuta analisi critica di una testo esemplare di Nicolas Sarkozy sulla religione cristiana come fondamento della convivenza nella laicissima Francia. O, per venire a una fonte più vicina a noi, nel brillante saggio di Giulio Tremonti «La paura e la speranza» si legge «la tradizione religiosa può compensare il vuoto di valori delle nostre democrazie …». E ancora «per identificare i valori serve un'anima, per difendere i valori serve il potere politico».
Davvero, allora, come è stato scritto, lo stato laico secolarizzato prigioniero ormai del relativismo etico ha bisogno di un fondamento religioso per giustificare se stesso? Questo interrogativo posto da un grande giurista tedesco molti anni fa è evocato da un più recente dialogo tra Joseph Ratzinger e Jürgen Habermas. È lo stesso futuro Pontefice a cogliere il rischio di una aporia: «Se lo Stato accetta il fondamento religioso — egli scrive — smette di essere pluralistico. Così sia lo Stato che la Chiesa perdono se stessi».
Non mi ha mai convinto il dibattito sul cosiddetto relativismo etico. Continuo a pensare che la nostra convivenza poggia su un insieme di valori morali (pace, tolleranza, pluralismo, libertà, solidarietà sociale…), di diritti riconosciuti e di norme giuridiche che hanno la loro genesi nella storia e nella civiltà europee; che comprendono anche la tradizione giudaico-cristiana, ma non si riducono a questa.
Solo il riconoscimento di questo pluralismo può fondare la laicità dello Stato e liberare la responsabilità della politica. Nel pluralismo c'è anche la garanzia più forte della libertà della Chiesa: libertà di parlare all'insieme delle nostre società e non solo di una parte; libertà di sprigionare la carica di universalità del messaggio cristiano che non può ridursi a «ideologia dell'Occidente ».
Non a caso nella mia conferenza non ho rivolto accuse alla Chiesa (così come risulta chiaro dalla cronaca del Corriere) ma l'invito a non cadere nella tentazione di un patto con il potere politico, di una commistione tra politica e fede, tra norma giuridica e convinzione etica-religiosa. Un invito, non un'accusa. L'invito di un laico che crede nella laicità della politica, ma che è nello stesso tempo ben consapevole del ruolo essenziale che i cristiani hanno nella vita pubblica e del contributo che da essi può venire a una visione alta e nobile dell'agire politico. Sono stato accusato di parlare come se ci fosse sempre il Pci. Si potrebbe discutere a lungo del rapporto che fu sempre intenso e rispettoso tra il Pci e il mondo cattolico. Ma sinceramente il Pci non c'entra niente con questa riflessione.
Semmai, in materia di difesa della laicità dello Stato, nel nostro seminario sono stati ricordati alcuni momenti cruciali della storia della Dc. Penso alla fermezza e anche alla sofferenza personale con cui Alcide De Gasperi seppe difendere dalle pressioni ecclesiastiche la scelta antifascista della Dc (Andrea Riccardi ci ha ricordato la pagina straordinaria delle elezioni romane) e la collaborazione con i partiti laici contro l'idea di un monopolio cattolico del potere. Penso alla testimonianza di Aldo Moro che rivolgendosi al consiglio nazionale della Dc all'indomani del referendum sul divorzio diceva: «Settori dell'opinione pubblica sono ora ben più netti nel richiedere che nessuna forzatura sia fatta con lo strumento della legge, con l'autorità del potere al modo comune di intendere e disciplinare in alcuni punti sensibili i rapporti umani. Di questa circostanza non si può non tener conto perché essa tocca ormai profondamente la vita democratica del nostro Paese, consigliando talvolta di realizzare la difesa di principi e di valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale». Una grande lezione di laicità da parte di un leader politico cattolico che rispetta appunto il fatto che lo Stato è di tutti e che il potere non può essere posto al servizio delle convinzioni pure nobili di una parte. Resto convinto che anche di fronte ai delicati problemi di oggi che toccano, di fronte ai progressi della scienza e delle tecniche, i temi della vita e della dignità umana, resti tuttavia valida la visione dello Stato testimoniata da Aldo Moro. E spero davvero che questo sia un patrimonio comune di quanti si sono uniti nel Partito democratico.

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